È suggestiva più che attuale la lettura della crisi come del passaggio dall’era americana a quella cinese-asiatica anche in campo finanziario. Gli Stati Uniti non sono l’Inghilterra del 1929 che non voleva più gestire il sistema internazionale, vogliono gestirlo e ne hanno i mezzi, non c’è nessun altro segno di declino americano. I fondi sovrani delle economie patrimoniali e post-socialiste, in Europa (Russia, Norvegia) e in Asia (dalle monarchie arabe alla Cina), sono ben più solidi dei fondi di varia natura che si pregiano del titolo di speculazione a Londra e Wall Street, ma proprio perché sono cauti: vogliono profittare del mercato e non gestirlo – garantirlo. La Cina (anche la Russia) non mostra di risentire della contrazione del capitale che affligge gli Usa e l’Europa. Perché non ha investito nei derivati immobiliari. E, si presume, in ogni altro derivato. Dai quali però deriva buona parte della liquidità che consente alla Cina da un trentennio ormai il suo straordinario dieci per cento annuo di crescita. Da questo punto di vista si può dire investitore accorto, e anche miglior capitalista, ma nulla di più. La crisi della liquidità, se si dovesse confermare, metterebbe fine ai balzi in avanti cinesi. Con effetti paurosi, in questa fase di accelerazione degli investimenti per le Olimpiadi, il salto è sempre un momento delicato: una crisi duratura della liquidità sarebbe letale per l’Asia, altro che sogni di grandezza.
La Cina del resto non solo non gestisce la crisi ma nemmeno ha chiesto né chiede un ruolo di gestore. I suo governanti sono gente seria: non hanno mai criticato il superdeficit americano, grazie al quale hanno prosperato, e probabilmente incrociano le dita come Bush.
venerdì 14 settembre 2007
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1 commento:
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