Rari, e deiettivi, fino a una ventina di anni fa, i libri di mafia sono ora un genere. Si pubblicano a centinaia ogni anno, anche a opera di firme illustri, Biagi, Bocca, e si vendono a milioni di copie. Fatalmente mitografici. Luigi Lombardi Satriani, che fornisce a "Fratelli di sangue" di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso la nota introduttiva, denuncia subito il circolo vizioso: da rabbia e rassegnazione non viene fuori nulla, e “se, d’altro canto, viene rappresentata la ‘ndrangheta come una realtà tenebrosa”, imprendibile, si favorisce “una spettacolarizzazione,… suscettibile… di ulteriore enfatizzazione, ma senza che essa sia minimamente scalfita”. “Fratelli di sangue” è un best-seller tanto più significativo in quanto è di ardua lettura, tra un migliaio di nomi insignificanti, e modelli organizzativi e gestionali che variano a ogni pagina.
Viene fuori da questi libri una mafia capacissima in tutto, nelle stragi, negli affari, in politica, nell’amministrazione, nell’organizzazione e gestione aziendale, e perfino in filosofia e nelle procedure dibattimentali. Sono appena trent’anni dalla “mafia imprenditrice” di Cordova e Arlacchi, testo seminale del genere, e gli ‘ndranghetisti, benché spesso analfabeti, sono diventati geni del saper fare in ogni campo. Lo sono nei fatti, si dirà, poiché restano vincenti. Ma nei fatti le mafie inciampano: non fanno mai il balzo a borghesia e a ceto dirigente legale, producono insicurezza oltre che violenza, contrariamente alla vulgata sociologica, producono altra mafia, e solo questo sanno fare. Che cos’è allora questa loro ubiqua capacità di dominio? Altro dato è l’alto tasso di violenza tra i clan contrapposti, con centinaia di assassinii ogni anno, impropriamente detto faida. C’è qualcosa che non quadra in questo genere letterario, a parte il legittimo desiderio di vendere molte copie. Quanto all’antimafia basti un solo fatto: a San Luca, dove la guerra di mafia era ripresa feroce tra Natale e metà 2007, gli arresti che avrebbero evitato la strage di Duisburg a Ferragosto sono stati fatti “dopo” la strage. E ancora: dalle intercettazioni, da cui si sapeva con chiarezza della strage in preparazione, risultava che uno dei due fronti aveva una basista a Roma a Cinecittà, una costumista in grado di fornire ottimi camuffamenti, che però non è stata arrestata. È l’antimafia degli informatori-pentiti-mafiosi? In questo senso sì, i mafiosi sono onnipotenti, se, oltre che domare la politica, gestiscono la stessa repressione attraverso i pentiti e le soffiate.
I fatti di questi best-seller sono invece sempre mirabolanti. Già alle pagine 18 e 19 la regia del mercato internazionale della cocaina è calabrese, un sommergibile porta la cocaina in Calabria, un clan chiede a una banca tedesca due miliardi di dollari in rubli per comprarsi una banca, un’acciaieria e una raffineria di petrolio in Russia, mediatore (p. 129) un Sebastiano Filippone, la ‘ndrangheta di Melito Porto Salvo tratta combustibile nucleare, prodotto in Usa dalla General Electric, per venderlo in Zaire. Si può non sapere che cos'è la General Electric, ma la ‘ndrangheta che fattura il 3,4 per cento del pil italiano, cioè una volta e mezzo il pil dichiarato di tutta la Calabria, ben 110 miliardi di euro, anche 120? L'evento è tanto più miracoloso considerando che si sta parlando solo della provincia di Reggio, da Rosarno sul Tirreno a Monasterace sullo Jonio (il confine della mafia è bizzarramente amministrativo). Ci sono diecimila mafiosi censiti in Calabria, di cui 7.300 nella provincia di Reggio, una delle cinque.
Tutto ciò potrebbe essere molto calabrese, di quel particolare humour che si diverte a “sballarle”. A p. 128 il mafioso D’Agostino s’incontra con Gheddafi dal gioielliere Bulgari a Roma. Per preparare la secessione della Calabria e della Sicilia. D’accordo con Concutelli. A p. 155 la ‘ndrangheta riscuote un dollaro e mezzo per ogni container in transito dal porto di Gioia Tauro: poiché Gioia Tauro movimenta 3,5 milioni di container l’anno, la ‘ndrangheta ci ricava 5-6 milioni di dollari, più della società Maesk che gestisce lo scalo, la più grande del mondo. A p. 209 Vito Rizzuto, in carcere negli Usa per omicidio, figlio di Nicolò, in carcere in Canada per droga, stava per “investire cinque miliardi di euro” nel Ponte sullo Stretto. Ma a p. 94 gli autori hanno parlato sul serio: “un calabrese su quattro”, dicono, “è un mafioso”. Senza escludere i bambini, le donne, i vecchi, i bigotti, gli scemi. Succede cosi che, anche se una giornata in Calabria è scandita da incontri ordinari, fruttivendolo, droghiere, tabaccaio, macellaio, qualche vicino di casa, uno ogni giorno ha a che fare con due mafiosi, o poco meno. In appendice il quadro sinottico dei processi per associazione a delinquere in Calabria tra il 1880 e il 1906, e i rituali della ‘ndrangheta - “questa parte”, dicono gli autori, “è tratta integralmente da rapporti giudiziari e sentenze”: si capisce che la mafia, così perseguìta, prosperi.
Non mancano le pezze solide, costruite con le indagini delle polizie federali e statali del Canada e dell’Australia. Ma sommerse dalle fandonie dei pentiti, dalla trita letteratura dell’Onorata Società di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, dei riti del sangue, delle formalistiche massoniche, e naturalmente della Spagna di maniera, manzoniana - qui si risale a Toledo, 1417 (che è già un passo avanti rispetto a Tucidide, Aristotele, Diodoro Siculo, Plutarco e Polibio di p. 21). Gratteri, che pure è magistrato della Dda a Reggio Calabria, e Nicaso danno a questa letteratura anche una certa qualità: “La società è una palla che va girando per il mondo”, dice un innominato capo ‘ndrina, un capetto, “fredda come il ghiaccio, calda come il fuoco, e sottile come la seta”.
È chiaro che è in gioco, oltre al piacere di sballarle, la morfologia del pentito, che è un criminale e per ciò stesso un semianalfabeta, normalmente un autodidatta del carcere: quello del vecchio stampo conosceva Dante a memoria, quello del nuovo sa di Colombia, Turchia, Berlusconi, centrali nucleari, della Russia mercato aperto, e in genere quello che sente al telegiornale. Oppure ha fatto la scuola dell’obbligo: “I personaggi di riferimento dei santisti (capicosca, n.d.r.) sono il generale Alfonso La Marmora come stratega di battaglie e il generale Giuseppe Garibaldi come combattente per la libertà e la giustizia”, spiega il pentito di droga Fonte, “il tutto ha un’evidente radice massonica e un profondo legame storico” (p. 74). Quanto profondo? Uno a volte pensa di avere le allucinazioni. Il pentito avrà fatto il bersagliere? Ma non è tutto: nella stessa p. 74 ci sono i vangeli, che sono più dei santisti, e come riferimento hanno Camillo Benso di Cavour, “somma mente di statista”.
In una regione senza memoria, che anzi ne distrugge con applicazione i segni, tutto si sa, documentato, articolato, della mafia. Non si può che congratularsi: nulla o quasi si sa della Calabria greca, latina, longobarda, bizantina, saracena, normanna, angioina, catalana, borbonica, nemmeno di quella garibaldina, ma tutto si sa della mafia. Se non che questa storia, per quanto dovutamente critica, mette in bella copia una realtà che, per essere contemporanea e sotto gli occhi di tutti, è invece sordida e miserabile. Gli occhi avidi dei lettori, se non le presenze arcigne dei Grandi Autori, proiettano su di essa un’aura di dinamismo e invincibilità. A tutti è chiaro che fra Robin Hood e Totò Riina c’è un abisso siderale, e tuttavia si è riusciti a fare di un volgare assassino, estremamente violento, un personaggio, di cui sappiamo anche il destino della moglie, dei figli, dei possedimenti, e cosa mangia, cosa beve, eccetera.
Una chiave utile di queste pubblicazioni è, tra i tanti topoi, la sorpresa per le donne coinvolte nella ‘ndrangheta. Perché la sorpresa? Perché la donna meridionale è quella del Nord: non quella che ogni meridionale conosce, libera e attiva, ma obbediente e velata donna di casa come la vuole la pubblicistica del Nord, e a cui l’uomo del Sud si confà. Queste pubblicazioni dicono quello che ci si aspetta che dicano: non rivelano e non spiegano, non servono cioè contro la mafia, solo confermano, irrobustendoli, i luoghi comuni. Il lettore non vuole sorprese, vuole confermarsi più che sapere, sono libri da cresima.
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