Non c’è dubbio che l’accordo di luglio su pensioni e lavoro peggiora, e non di poco, la condizione dei lavoratori. Che il sindacato ci abbia voluto su un referendum può significare che lo accetta come il male minore. Che è, come si dice, un sindacato moderno. Ma anche in questo caso è ipocrita – il sindacato e il referendum. Gli “scalini” alla pensione peggiorano lo “scalone” di Maroni: s’innalza di altri due anni, a 62, l’età minima per le pensioni d’anzianità, con sole due finestre anticipate in cinque anni. Si introduce surrettiziamente la diminuzione del coefficiente pensionabile per la previdenza attuale, contributiva. Si introduce lo straordinario senza contributi. Si reintroduce il contratto breve anche oltre i 36 mesi, a tempo indeterminato. Peggio di così non si poteva fare, evidentemente. Basta tuttavia a riportare il mercato del lavoro in Italia alle condizioni da Terzo mondo nelle quali sempre Prodi l’aveva abbandonato dieci anni fa. È la globalizzazione, si dice.
Ma se è necessario che l’Europa e l’Italia tornino a condizioni di lavoro da Terzo mondo, i piccoli passi non sono risolutivi. Non sono il passo indietro per fare il balzo in avanti. Sono un passo indietro nel circolo vizioso: minore competitività, peggiori condizioni di lavoro, minore reddito, minori consumi, minore competitività. Questo si sa, l’Europa avrebbe bisogno di liberarsi una volta per tutte del giogo della spesa pubblica, attraverso un consolidamento del debito, o la liberalizzazione della spesa. Ne avrebbe anche i mezzi se si accettasse per quello che è, l’area più ricca del mondo. Non può invece sopravvivere, dacché ha scelto il rigore monetario, con la contabilizzazione dei decimi di percento, ogni anno, ogni semestre, ogni trimestre, ogni mese, ogni settimana: dieci anni sono stati perduti con questa ginnastica, che ha solo svilito il malato.
Ma poi sono tutte chiacchiere. Il referendum dei sindacati è stato la prova di quello con cui Veltroni s’intronizzerà candidato.
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