giovedì 25 ottobre 2007

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (4)

Giuseppe Leuzzi 
Milano. 
La capitale morale d’Italia ha espresso e imposto Bossi, Di Pietro e Berlusconi. Con la questione morale. Mentre si prendeva tutte le banche e tutte le industrie pubbliche, a prezzo vile. 

Milano sa vendere ma non creare. Anche la moda: è milanese per il marketing. 

Milano capitale dell’editoria non crea gli autori, Calvino, Gadda, Sciascia, Pasolini, nemmeno quelli che più vendono come Camilleri o Carofiglio. Camilleri ha dovuto farsi Camilleri, con un trentennio di fatica, e poi Milano se l’è preso, per venderlo meglio. Fino al Manzoni, altri tempi, erano violenti anche i milanesi, rozzi, arretrati. Dopo, all’incirca nel 1860, un solo cattivo subentra nelle letteratura italiana, quella meridionale compresa: il Sud. Solo il Sud è da allora rozzo, violento, avido, corrotto. Bisogna pagare a Roma, e anche in Toscana, per avere l’allaccio di tutto, l’acqua, la luce, il gas, il telefono, se se ne ha bisogno, ora, non fra un anno. Come a Reggio Calabria. Ma a Roma non si dice, figurarsi in Toscana. Le murene e le anguille migliori venivano dal mare tra Reggio e Messina. Così si legge nel “Logistoricon” e “lo dice con assoluta certezza Orchestrato di Gela”: Lia Del Corno, “A tavola con Omero”, p.48. La Sicilia è uno dei posti più gradevoli dove abitare, in Italia e quindi al mondo. Per la natura, la storia, le arti, i sapori, i colori. Per la capacità artigiana, il gusto urbanistico, lo spirito rapido. Tutta la Sicilia. Ma con qualsiasi siciliano si parli, in Sicilia e fuori, da Sciascia in giù, la Sicilia è sporca, è corrotta, è mafiosa, è ladra. Tutta la Sicilia. Magari con le assurde distinzioni che qualche bello spirito s’è inventato – sembra roba di caserma – tra mafiosi buoni vent’anni fa e cattivi oggi. Tra i grandi nobili, magari depravati, del Sei-Setecento, e anche dell’Ottocento, e quelli debosciati di oggi. Tra i democristiani onesti di dieci, venti e trent’anni fa e quelli corrotti di oggi. Il giudizio è più aspro delle persone più condannabili. Tomasi, che ha stabilito il criterio della demolizione universale, è uno che non ha saputo governare una casa, innamorare una donna, coltivare un amico, solo a suo agio coi tre cugini Piccolo, altrettanto misantropi – lo snobismo è misantropia, feroce anche. Anche Sciascia ha vissuto la Sicilia come un incubo, lui che pure aveva la grande passione della ragione. Chi ha vissuto fuori – chi ha saputo cioè costruirsi – è invece sereno: Verga, Pirandello, Brancati, Cuccia, i musicisti. Ippolito Nievo, che sarebbe stato il nostro Stendhal, scomparso anche lui come Majorana giovane sul malefico vapore per Napoli, dice tutto ben prima di Bossi, in un modesto diario che infine si pubblica come “Impressioni di Sicilia”, e nelle lettere alla cugina amata. I Mille, che erano ottocento, sarebbero stati “la seconda edizione aumentata e ingrandita di Pisacane e di Capri”, se i napoletani non se la fossero squagliata, che poi erano austriaci e bavaresi. C’erano i soliti figuranti: “un barone di Marsala a cavallo di un asino”, “un frate guerriero da Castelvetrano a cavallo, col Cristo in una mano e la spada nell’altra”, e due compagnie di picciotti, sì, ma agli ordini dei parrini, due frati di Partitico. Nessuna ribellione, in nessun posto. “I palermitani sono occupatissimi a ripararsi dalle bombe”, e i picciotti “amano la guerra, ma senza pregiudizio dell’integrità personale”. E tutti chiedono posti e pensioni, benché misere: “Principi e principesse, duchi e duchesse a palate agognano venti ducati al mese di salario”. Tomasi è massimo illusionista che fa credere al mondo, siciliani compresi, che l’isola ha fatto l’unità d’Italia, seppure al contrario. L’isola era stremata, e ancora scappa, piegandosi col cappello in mano: “I siciliani sono tutti femmine, hanno la passione del tumulto e della comparsa”, la rivoluzione è opera di “briganti emeriti che fanno la guerra al governo per poterla fare ai proprietari”. Il profittatore Depretis dava ogni sera da mangiare ai nobili a Palazzo Reale: “Il voltafaccia di tutta questa gentaglia mi stomaca, ne pronostico del male, la servilità non dà speranza di eroismo e neppure di costanza”. Al plebiscito i no all’Italia furono venti su 32 mila votanti. 

Sudismi\sadismi. 18 gennaio 2007. 
Si fa una conferenza stampa a Rossano, con gli inquirenti al completo, magistrati, poliziotti, carabinieri, per denunciare il testimone che ha fatto arrestare due assassini. Non per denunciarlo, bisogna essere precisi, ma per proteggerlo. Anzi per farne un eroe. Dandone nome, cognome e coordinate – è parroco a Longobucco, don Antonio Oliverio. Forse per farne un martire. Dell’antimafia. Don Antonio, saputo dalla sorella, testimone oculare, l’identità dei killer di un imprenditore, lo ha fatto sapere agli inquirenti. Che prontamente lo hanno portato alla ribalta. Ma perché Amato denuncia i testimoni? Don Antonio, che sa come vanno le cose, si era cautelato, la confidenza l’ha fatta anonimamente per telefono. Ma gli inquirenti hanno prontamente indagato e l’hanno scoperto. In questo non si può non fare un plauso alle forze dell’ordine: degli assassini non si sono occupati ma del prete subito e con ottimi esiti, non si può dire che non siano bravi inquirenti. Maria Rosaria Oliverio invece, la sorella, sta zitta. È incolpata di reati gravi ma ancora adesso preferisce non collaborare con gli inquirenti. Forse per dare ragione alla sociologia da caserma dell’omertà, della solidarietà del Sud con i violenti e i mafiosi. Oppure avrà pensato: meglio vittima dello Stato che della mafia. Ma in questo sicuramente sbaglia.

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