Il giudice Tinti dice tutto sul disordine della giustizia. Lo annuncia in anteprima e lo spiega in tv, sereno, soddisfatto di se stesso: la colpa, anche qui, è di Berlusconi. Si potrebbe dunque non leggere il suo libro, è chiaro che la colpa è di Berlusconi. Ma Tinti dice una cosa di più: che anche il Csm non funziona, e che il sindacato dei giudici è diviso in correnti “armate”. Il giudice lo dice non volendo. Lo dice anche in maniera stucchevole, sceneggiando i suoi assunti in dialoghi platonici o da sitcom, tra l'avvocato Debonis, il Defarabuttis etc., ma è importante che si cominci a parlarne: il Csm, organo costituzionale, presieduto dal presidente della Repubblica, è diviso in correnti e paralizzato dal sottogoverno. Che si tratti di un trasferimento, di una nomina, di una misera competenza. Questo è quello che tutti sanno da decenni, anche per la divulgazione dell’osservatorio bolognese di Giuseppe Di Federico, ma è importante che finalmente anche un giudice lo riconosca.
Per il resto il procuratore Tinti si trincera anche lui dietro le colpe dei politici: “Oggi in prigione finiscono i poveracci”, che purtroppo è sempre stato vero. E: “Da Mani Pulite in poi la preoccupazione (dei governi) è stata una sola: rendere non punibile la classe dirigente di questo paese”. Mentre il contrario è vero, che i politici sono più o meno tutti intercettati, roba da Sifar, e i giudici intoccabili. Anche quelli del tribunale fallimentare di Firenze che niente differenzia da una cosca. Anche il Pm che istruisce cause col penalista suo figlio. Anche il giudice che deposita la sentenza dopo quattro anni. O quello che lascia passare tre anni per un rinvio a giudizio. O quello – è lo stesso – che si rifiuta di giudicare dei terroristi perché li considera guerriglieri. Termine nuovo, recepito forse dal diritto latinoamericano, per dire combattente della libertà.
Il procuratore Tinti, così distinto, ritiene meritevoli del carcere solo i parlamentari. C'è una logica in tutto questo? Sì. La stessa per cui un giudice può argomentare, in Italia, impunemente, che un signore che prepara un eccidio è un combattente della Resistenza e non un terrorista, e anzi per questo diventare vedette della tv di Stato, con sarto, parrucchiere e truccatore al seguito. Il libro “Toghe rotte” serve ad aprire questa strada, si capisce che l’autore è contento: la televisione ancora più che i giornali è il traguardo di ogni giudice, la vanità. Più che rotte le toghe sono una casta, l’unica vera della Repubblica, si chiamano eccellenza, hanno anche gli ermellini, e si vendono i segreti ai giornali, impuniti e impunibili. Incorrotti e incorruttibili, come le ossa secche – se ne potrebbe fare un napoletano cimitero delle “anime pezzentelle”, un museo mobile.
mercoledì 17 ottobre 2007
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