Tutta la polemica è anticipata dallo stesso Toaff in nota a p. 276, dove rimprovera a Langmuir il rifiuto, “con sdegnosa sicumera”, del collegamento fra lo “stereotipo dell’accusa del sangue” (crocifissione e consumo del sangue) e l’irrisione ebraica di Cristo e dei riti della Passione, supposto da Cecil Roth e Miri Rubin. Nelle sinistre Toledòth Jéshu, le grossolane storie di Gesù redatte con cognizione di causa, da chi conosce i Vangeli, specie nelle omissioni, ironiche, ridicole, sarcastiche, che sono una costante della tradizione ebraica. “La produzione delle Toledòth è un processo continuo d’accumulo di materiale e di rielaborazione sistematica”, afferma lo stesso Di Segni, che ne è studioso, una serie di testi “blasfemi”, una letteratura che ha “fama sinistra” tra i cristiani, e imbarazza gli ebrei. Purim, che spesso coincide con la Settimana Santa, assume col tempo carattere anticristiano e blasfemo – ne ha parlato Frazer, poi non più. Ma è una letteratura viva, che comincia al tempo dei Vangeli, prima quindi della dispersione, dell’anno Mille, delle Crociate, dell’accusa del sangue, delle conversioni forzose, proseguendo fino a fine Ottocento. Non si tratta di risolvere i problemi entro lo schema “da una parte…. dall’altra”, o del cerchiobottismo. Ma di prendere atto che c’è partita, che ci sono, ci sono state, due squadre in campo. Gli storici ebrei, si difende Toaff in anticipo, che vorrebbero collegare l’accusa “a comportamenti ebraici reali, magari malinterpretati, sarebbero intenzionalmente in errore perché timorosi di affrontare apertamente la storiografia cristiana, incapaci di comprendere il potere dell’irrazionale nella mente umana o, peggio, obnubilati dalla velleitaria presunzione che gli ebrei svolgano un ruolo di qualche peso nella storia”.
La fine del paradigma indiziario
La storia di “Pasque di sangue” era dunque stata spiegata e risolta in anticipo, con chiarezza. Da spiegare restano le critiche, specie quelle di Adriano Prosperi e Carlo Ginzburg, su “Repubblica” e il “Corriere della sera”, violente graficamente e sintatticamente.
“Pasque di sangue” si può dire scritto – diversamente dagli altri libri di Toaff, finora storico piano della civiltà materiale dell’ebraismo italiano, “Il vino e la carne”, “Mostri giudei, l’immaginario ebraico”, “Mangiare alla giudia”, e autore, con Alain Elkann, di un “essere ebreo” - in stile Ginzburg. Che lo ha ripagato con un pesante intervento sul “Corriere della sera” del 23 febbraio, “L’errore di Toaff”. L’errore sarebbe stato di accettare il processo per buono, veritiero, cosa che Toaff non fa – e come lo potrebbe uno storico, la verità processuale è la verità del processo (Ginzburg, “Lo storico e il giudice”, una posizione che la Corte Costituzionale ha recepito nel 1998: fine del processo è “l’accertamento giudiziale dei fatti di reato e delle relative responsabilità”). Toaff lascia il processo a se stesso, dopo avere abbondantemente rilevato l’oltranzismo religioso del vescovo di Trento, e il carattere ambiguo delle persecuzioni contro gli ebrei, e anzi dello stesso pregiudizio, più spesso un furbo freddo pretesto per esazioni miliardarie, nonché i casi di bambini scomparsi poi riapparsi. In più punti le testimonianze accusatorie a Trento sono dette inverosimili, oltre che estorte. L’errore è semmai, se lo è, lo “stile Ginzburg” che Toaff adotta, della ricostituzione attraverso la rappresentazione, in uso peraltro nella buona storiografia da sempre, da Tucidide a Quinet. O questo schema interpretativo, che Ginzburg ribadisce nella sua ultima raccolta, “Il filo e le tracce. Vero, falso, finto”, è solo delle culture morte? La creazione di un quadro vivo, vivace, non si attaglia forse a vicende ancora aperte. Ma nella documentazione le pezze d’appoggio sono tante, soprattutto per quanto concerne la letteratura in ebraico, questo anche i suoi terribili critici dovrebbero riconoscerlo a Toaff.
Adriano Prosperi, “Repubblica” 10 febbraio 2007, parte dal presupposto che Toaff provi gli infanticidi, o almeno un infanticidio, per le “Pasque di sangue”. Colpa specifica poi gli fa di annunciare “trionfante di aver trovato “precisi riscontri”” alla testimonianza accusatoria a Trento di un ebreo convertito, che sarebbe stato a suo dire testimone di un infanticidio nel 1740 a Landshut. Mentre Toaff dice: “Sia l’infanticidio di Landshut che il successivo massacro degli ebrei trovano precisi riscontri nei documenti dell’epoca”. Questo testimone, dice Prosperi, era già in carcere per altro reato, cosa che Toaff omette di dire. Ma Toaff lo dice. La sua testimonianza, dice Toaff, fu “decisiva per mettere in moto la feroce macchina giudiziaria”. No, ci fu dell’altro, e Toaff lo racconta. Così come racconta – è una delle parti gustose del libro – le barricate del vescovo di Trento Hinderbach contro il messo papale che voleva vedere chiaro nel processo. Il rimprovero a Toaff di omissione di quelle che sono parti importanti del libro è segno d’irritazione ma ingiusto. Anche perché il metodo di “Pasque di sangue” ricalca quello che Prosperi e Ginzburg hanno proposto trentacinque anni fa in “Giochi di pazienza. Un seminario sul “Beneficio di Cristo””, dello storico come giocatore d’azzardo.
Di appena tre anni più giovane, Toaff ha voluto pagare un tributo indiretto ai due storici “pisani”, identificandosi nello storico come in uno che vuole escogitare e trovare “qualcosa di veramente nuovo” (“Ci sedevamo a un tavolo da gioco dove le carte erano in parte già state distribuite, e le regole fissate…..”). E questo risponde d’anticipo all’unica critica possibile, sul “dubbio coniugio fra l’antropologia dei riti ebraici qui diffusamente esposta e la storia dei rapporti di potere e dei pogrom”. Confusione che però Toaff non fa: non fa la storia del potere e dei pogrom, ma dei riti ebraici, dei riti del sangue – la storia e non l’antropologia, su testi, documenti e immagini, per la prima volta. Usa “la tecnica della drammatizzazione delle ipotesi”, che Prosperi gli rimprovera, componendo un quadro convincentemente vero, oltre che sapido, dell’ebraismo ashkenazita (tedesco) a cavaliere delle Alpi nel tardo medio Evo, che gli ebrei di Roma rigettò sotto il Po, ma non va oltre. Toaff attua la deontologia del buon storico, “essere obiettivo, imparziale, ricercatore della verità”, nel suo senso negativo, “non falsificare i dati della ricerca”, e in quello positivo, avere “una disponibilità illimitata nei confronti di tutto ciò che (ne) può emergere”, e pazienza se questa è la metodologia di Ginzburg-Prosperi. Toaff non va alle estreme conseguenze che Gizburg-Prosperi auspicavano nei primi anni Settanta, perché non cerca di trovare niente. Né usa con le fonti il discutibile metodo di “Giochi di pazienza” – “saremo gli ultimi a scandalizzarci” se gli altri studiosi hanno avuto in materia “presupposti extrascientifici”, giacché “essi li hanno portati a risultati di fatto con cui chiunque deve fare i conti”. Fa uso soltanto di un linguaggio scorrevole, per una storia come narrazione o rappresentazione, e questo forse lo ha perduto, non avendo né Prosperi né Ginzburg gradito l’omaggio (è anche vero che i “Giochi di pazienza”, pubblicato nel 1975, condannavano spiritosamente l’uso delle fonti processuali e delle controversie teologali: “Sarebbe come fare la storia dei gruppi extraparlamentari di sinistra sulla base delle relazioni del procuratore Sossi”, mentre ora si sa che tanto sbagliato non sarebbe stato).
Detto tutto, e forse involontariamente, “Pasque di sangue” segna la fine, o comunque la debolezza, del paradigma indiziario sul quale è stato costruito, per quanto appassionante. Oggetto non a caso della veemente critica di Ginzburg, il padre del paradigma. Ci sono – ci vogliono – interdizioni. Uno è certamente la misura, cardine di ogni giudizio, e quindi anche della storia. Un altro è la completezza – terminati tutti relativi, certo. Vale a questo punto tornate alla formulazione originaria dell’“indizio”, quella dell’“Introduzione all'analisi strutturale dei racconti” di Roland Barthes, del 1966 (tradotta in AA.VV., “L’analisi del racconto”, 1969), come uno dei due componenti di ogni storia, lo scarto, la differenza, l’altro essendo la “funzione”, o rapporto simpatetico tra i segmenti lineari del racconto. L’indizio è efficace artificio narrativo, di storie quindi compiute. La completezza è un altro prerequisito. Anche a costo di fuoriuscire dal “quadro”. E questo a Toaff, ha ragione lui, nessuno la può negare, la conoscenza delle fonti.
La storia è dei padroni?
Le critiche sono state numerose, oltre che scandalizzate. Ma tutte perpetuando paradossalmente l’idea che la storia è quella dei padroni-vincitori. Riccardo di Segni, ora rabbino capo di Roma, rimprovera a Toaff l’uso della “qualifica di “fondamentalisti” assolutamente anacronistica”, che per la verità Toaff circoscrive a gruppi limitati di fanatici che “avevano aggirato o sostituito le norme rituali della halakhah ebraica”, per la forza della tradizione popolare o per consuetudini “impregnate di elementi magici e alchemici”. Gli rimprovera anche la scarsa scientificità, che sarebbe attestata dalla mancata pubblicazione del lavoro via via che si sviluppava in riviste scientifiche. Mentre Toaff attesta che la sua ricerca ha discusso per sei anni in seminari alla sua università Bar-Ilan a Tel Aviv. Che è un’università religiosa benché laica – ha il compito statutario di “sintetizzare l’antico e il moderno, il sacro e il materiale, lo spirituale e lo scientifico” (fondata da un rabbino americano nel 1955, ha il nome di un rabbino berlinese sionista, Meir Bar-Ilan, che lo studio accademico voleva esteso alla Torah, ed è frequentata da ebrei credenti - Yigal Amir, l’assassino di Itzak Rabin, aveva da due anni ripreso gli studi a Bar-Ilan, di legge e ebraismo).
“Il più clamoroso errore logico compiuto dall’autore” è per Alessandro Barbero, “Tuttolibri” 3 marzo, l’affermazione “d’aver trovato “riscontri puntuali” alla confessione degli ebrei imputati a Trento nel 1475”. Ma questo non è vero: Toaff non porta riscontri sul fatto specifico, di cui dà al contrario una rappresentazione derisoria, rileva rispondenze nell’ebraismo tedesco di alcune pratiche rituali descritte da testimoni al processo. Curiosa la presentazione che il quotidiano israeliano “Haaretz” fa, con ben due giornalisti, del caso Toaff discusso alla Knesset: “Nel suo libro “Pasque di sangue”… Toaff fa il caso del processo per omicidio rituale di Trento nel 1475, insinuando che alcuni ebrei effettivamente uccisero il bambino, Simone, al centro dell’affaire. Ora specifica che gli ebrei di Trento non uccisero Simone, né nessun altro bambino cristiano, per scopi rituali”. David Bidussa sul “Riformista” del 24 febbraio chiede a Toaff: “Rovesciando le righe finali del suo testo, io non mi aspetto che si redima di fronte alla figura del Beato Simonino e si penta…”. Ma le ultime righe di Toaff sono apertamente irridenti verso il processo e il post-processo. Più sobria Anna Foa, che ha aperto le critiche, ma limitandosi a rimproverare a Toaff una “personale rilettura” delle fonti, e la mancanza di sensibilità politica sull’argomento.
Foa dirà poi di aver criticato il lancio del libro. Che però non ha avuto speciale pubblicità, non più delle anticipazioni che si fanno dei libri con qualche giornale. Nell’occasione col “Corriere della sera”, che ha titolato “La sconcertante rivelazione di Ariel Toaff: il mito dei sacrifici umani non è solo una menzogna antisemita - Quelle Pasque di Sangue - Il fondamentalismo ebraico nelle tenebre del Medioevo”, la presentazione di Sergio Luzzatto, piuttosto anodina. Le critiche sono dunque al “Corriere della sera”? Non è possibile, ma probabile sì. Il 6 febbraio Luzzatto presenta il libro, l’8 e il 10 febbraio Foa e Prosperi lo stroncano su “Repubblica”, il libro è in vendita dal 12 febbraio, il 16 febbraio è ritirato. Toaff destina i diritti sulle tremila copie vendute all’Anti-Defamation League.Alcune critiche sono apertamente bizzarre. Prosperi e Ginzburg contestano la serietà della Biblioteca di storia del Mulino. L’1 maggio Prosperi torna sull’argomento, a proposito del libro lampo che Franco Cardini pubblica sul caso: non gli piacciono gli storici che scrivono per i giornali. Adriano Prosperi dunque scrive su un giornale che scrivere per un giornale non è scrivere… Anzi, fa di più: su un giornale insolentisce come autore in cerca di scoop uno storico, Toaff, che non scrive per i giornali. La polemica insomma è subito partita come sempre suole per la tangente – Cardini, che in argomento aveva esordito entusiasta, “chapeau per Ariel Toaff”, “Avvenire” 7 febbraio, produce in poche settimane un libro per pentirsi, “Una riconsiderazione”, introducendo il politicamente corretto nella storiografia: “Ci sono cose di cui è opportuno tacere”.
Gli ashkenaziti, un'altra storia
L’originalità del libro è di situare le Pasque di sangue e la relativa paranoia in ambito germanico, anche “di qua delle Alpi”, tra le colonie ebraiche di origine tedesca che a lungo si mantennero tedescofone. C’era un commercio transalpino di sangue coagulato, indiscutibile (il “sangue giovane” è pregiato negli elettuari tedeschi, eccetera). Il culto del sangue era forte in Germania, tra i cristiani e tra gli ebrei (Isacco, la lebbra del faraone, la circoncisione, che comincia con l’esodo dall’Egitto, la prima piaga d’Egitto…), malgrado le interdizioni bibliche. Gli ashkenaziti erano anticristiani con la stessa virulenza con cui Lutero sarebbe stato antisemita. Questo argomento può essere discutibile, ma di questo si dovrebbe parlare, non accusare Toaff di oscenità.
Ginzburg attribuisce a Toaff, cui toglie la qualifica di studioso, così come a Sergio Luzzatto, ogni demerito, dall’antisemitismo della “Civiltà cattolica” nel 1914 all’abuso della sua autorevolezza, sua di Ginzburg. Da storico, l’accusa al “libro pessimo” è che “l’esistenza di eventi specifici viene provata sulla base di un contesto culturale: un’assurdità”. Ma Toaff non dice che l’accusa a Trento fu provata. Al contrario ricostituisce un contesto culturale di cui s’era persa la memoria, nel quale gli accusati a Trento vivevano e operavano: l’odio reciproco tra ebrei e cristiani in terra tedesca. In un’epoca in cui si faceva commercio di sangue, anche liofilizzato, non necessariamente umano, o non di morti assassinati. Le accuse d’infanticidio rituale e di profanazione dell’ostia erano tipicamente tedesche. È in Germania che la circoncisione e la crocefissione sono rappresentate come violenze semitiche, alla stregua dell’omicidio rituale. Sulla traccia che Isaia Sonne ha individuato nel 1954 in “Da Paolo IV a Pio V”: Yoseph Ha-Cohen (Giuseppe Sacerdoti), uno dei più noti cronisti ebrei del Cinquecento, che molto scrisse contro le false accuse d’infanticidio, “generalmente attribuisce alla deplorevole condotta degli ashkenaziti e alla loro mancanza di scrupoli il deterioramento dei rapporti delle comunità ebraiche in Italia con la società cristiana”, al punto che “gli avvenimenti e le circostanze in cui la responsabilità degli ashkenaziti era accertata… Erano sottaciuti dagli storici ebrei nel timore che portassero acqua al mulino degli antisemiti”.
Anche per questo gli ashkenaziti a lungo si mantennero divisi dagli ebrei che salivano da Roma, oltre che per lingua, riti e pratiche commerciali, quando non “fratelli coltelli”: ci sono più scambi, fra Tre e Cinquecento, tra gli ebrei pedemontani, tedescofoni, ashkernaziti, e gli ebrei di Germania che non tra gli stessi e gli ebrei al di qua del Reno. A metà Quattrocento gli ebrei romani sono praticamente espulsi dalle città venete, più spesso a opera dei concorrenti ashkenaziti. La Comunità tedesca separata dalle altre è ancora nella classica memoria di Giorgio Bassani, “Il giardino dei Finzi-Contini” - la sinagoga italiana è al secondo piano, al piano nobile c’è quella tedesca, “così diversa nella sua severa accolta, quasi luterana, di lobbie borghesi”. In una pluralità distinta di comunioni, certo: “Le varie cosiddette Nazioni nelle quali era divisa nel Cinque e Seicento la Comunità veneziana, la Nazione levantina, la ponentina, la tedesca, l’italiana”, e all’interno della ponentina c’erano almeno quattro distinti riti e tempi, spagnolo, portoghese, catalano e provenzale. La superbia dei tedeschi avrà pure avuto qualche fondamento (al processo di Trento Anna da Montagnana, donna di casa, sa leggere l’ebraico e tradurlo), ma nondimeno tale è - il protagonista del racconto si fa anche raccontare dal professor Finzi-Contini “l’ideale dell’ottimo storico”, in questi termini: “Il raggiungimento della verità, senza però mai smarrire per istrada il senso dell’opportunità e della giustizia”.
La colpa è di Toaff
La colpa di Toaff è in ciò che egli non dice ma rappresenta, documentandolo: che l’odio fra ebrei e cristiani era, in certe comunità, reciproco. È cioè il cuore del libro, della ricerca. Quanto reciprocamente feroce la rappresentazione non può dire. La storia documenta unicamente persecuzioni di ebrei a opera di cristiani, e in questo senso è scritta, incontestata. Ma se l’odio e il disprezzo sono forti anche nei perseguitati, perché non dirlo? Lo storico cerca la storia. Prima e al di là della colpa, che certo è cristiana. Lo storico non si limita a dire che i cristiani sono malvagi, ce ne dice anche i motivi e le circostanze. Che non è un giudizio, con assoluzioni e condanne, non in senso giuridico. Le prove, dice Aristotele, sono il “nucleo essenziale” dello storico. Ma la storiografia nella “Retorica” di Aristotele, che mostra di condividere, Ginzburg formula in “Rapporti di forza”, p.62, “come segue:
a) la storia umana può essere ricostruita sulla base di tracce, indizi, sēmeia;b) tali ricostruzioni implicano tacitamente una serie di connessioni naturali e necessarie (tekmēria) che hanno carattere di certezza: Fino a prova contraria un essere umano non può vivere duecento anni, non può trovarsi contemporaneamente in due posti diversi, etc.;
c) al di fuori di queste connessioni naturali gli storici si muovono nell’ambito del verosimile (eikos), talvolta dell’estremamente verosimile, mai del certo – anche se nei loro scritti la distinzione tra “estremamente verosimile” e “certo” tende a sfumare”.
Toaff, malgrado lo stile, si mantiene sobrio. Sa forse che c’è la prova di Lutero alla radice della odierna cultura del sospetto, di Marx, Nietzsche, Freud, e del paradigma indiziario: non so se gli ebrei uccidono i bambini e avvelenano le acque, però so che se lo potessero fare non gliene mancherebbe la volontà. Toaff si mantiene su questo con fermezza saldo: bisognerebbe prima conoscere tutti gli ebrei, uno per uno. Fare spazio cioè anche al non sospetto, altrimenti la prova è un sottoprodotto kantiano. “Pasque di sangue” è un quadro della presenza ebraica in Italia, attiva, non marginale, diversificata. Uno dei più solidi libri di storia, di storia d’insieme, di un fenomeno legato al suo tempo, Toaff è efficace creatore del contesto. Un libro documentato e ben organizzato, e quindi saggio. Cosa gli manca? Una minima cura redazionale, quasi nulla: tre, forse quattro, aggettivi da calibrare, o al limite eliminare - e a p. 112 “la Domenica delle Palme, mercoledì 22 marzo”. C’è anche lo “scambio amoroso con le fonti” che Natalie Zemon Davis rileva fra gli storici. Ma con effetti positivi più che negativi, poiché Toaff sa far rivivere roba sepolta da tempo. Ariel Toaff è socio onoraro dell’Aisg, l’Associazione Italiana per lo Studio del Giudaismo. Ma meno distaccato di Heine che scrive “Il rabbino di Bacharach”, il rabbino che si allontana dalla sua comunità quando essa cade sotto l’accusa del sangue. Delle critiche il meno che si può dire è che hanno perpetrato l’assassinio di un libro. Non rituale, volontario. Per un movente che non sappiamo, e forse non c’è – la stampa talvolta si annoda su stessa, l’opinione pubblica: l’abominio è pretestuoso, del tutto, e sa di interdetto e non di condanna argomentata, malgrado l’autorevolezza dei giudici.
Che dirne? Poiché è della vicenda editoriale che si è discusso e non del merito della ricerca – non del merito della ricerca – la verità è l’incredibile perdurante assunto, tanto più incredibile in questa epoca di contestazione globale dell’Europa, nella globalizzazione e sotto la sfida dell’integralismo religioso, che l’Europa si riduca al papa, anzi al papa e all’inquisizione, cinquecento anni di storia moderna, quando non i suoi due millenni abbondanti di vita. Assurdo più che incredibile assunto dei modernisti, che limitano la loro attività all’argomento più becero della controversistica protestante, poi massonica, ringhiosi cani da guardia di una “verità” che dovrebbero invece combattere. Un omaggio diabolico al papa, che altro dire?, ma che c’entrano gli storici? O è la miseria della storia, e della stessa tolleranza, quale la storia la registra: la ferocia è purtroppo connaturata all’intolleranza dei tolleranti, tanto sono pieni di sé.
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