mercoledì 28 novembre 2007

"Casi critici" sono i critici italiani

Autore un anno fa con Giulio Ferroni di mille pagine di stroncature (“Sul banco dei cattivi”, Donzelli), a soli 11 euro, Berardinelli scrive diretto. Di Eco, Citati, Gadda. Ha un utile canone in dieci punti del Novecento. Ripropone lo sfizioso “Stili dell’estremismo”. Nel libro raccoglie saggi, argomenti ripensati, e non elzeviri sparsi alla gloria di Narciso. Ma ha, vuole avere, il senso della consistenza della letteratura, nel solco di Fortini, Debenedetti. Non cede alla divagazione bonaria che è la cifra più alta delle lettere contemporanee, da Eco a Camilleri, i due autori che hanno riempito le librerie negli ultimi quindici anni. Né al ricamo che esaurisce la critica sua coetanea.
La critica del ricamo ha cause forse generazionali: i critici cinquantenni vogliono le posizioni tenute dai settantenni, all’università e nei giornali, mentre nelle case editrici imperversano i trentenni, specialisti in best-seller. I posti sono occupati e la generazione è forse perduta. Ma a questo punto senza pietà, basta vedere ciò che scrivono, e come. Il non luogo, il non testo, la non scrittura, i cinquantenni sono ancora all’armamentario del vecchio postmoderno, pur sapendo che la categoria era stata inventata per svago. È una critica disimpegnata, ma con tanta pervicacia che uno rimpiange perfino la critica militante, che almeno aveva passione. Forse senza colpa, non una specifica: è il non essere dell’epoca, un morbo molto italiano – gli asiatici sono molto appassionati e vecchi credenti, gli americani, del Nord e del Sud, e i francesi, i tedeschi, probabilmente gli svizzeri, eccetera.
Berardinelli da tempo ormai lo sa, e si è smarcato. Anche se non vede attorno che mura erte, e come potrebbe altrimenti? L’Italia non è nel mainstream, per motivi storici e per provincialismo. Milano non è Parigi-New York, le capitali dell’editoria, delle idee, degli stili, non è nemmeno Londra o Barcellona, o l’Asia, o l’America Latina. Berardinelli lo sa, che in partenza chiosa:“La nostra narrativa, già con gli anni Ottanta e soprattutto dopo, nasce e si moltiplica ignorando modernità e postmodernità”. Capita di rileggere il Novecento, sempre con la stessa sorpresa: ma che mancanza di sorpresa! Prima e dopo il neorealismo: come si faceva a scrivere così piatto? Ora siamo nel Duemila, e Berardineli parte alla ricerca di cosa c’è dopo: cosa c’è dopo la postmodernità? Dove?
Il problema di Berardinelli è nel suo assunto iniziale, se il canone è, è stato, in Italia il postmoderno. Postmoderno Calvino? Nel 1952? Forse Arbasino, che però non è di scuola citare. Nessuno è in realtà interessato alla lingua, Pasolini meno di tutti, che è un esteta di paese e non un costruttore. Una piccola eccezione è Gadda, che però di suo è un social scientist. L’Italia è un paese diverso.
Una diversità è la stessa iperfetazione della critica, di qualsiasi generazione. In contemporanea con “Casi critici” se ne pubblica anche un dizionario a prezzi popolari. Berardinelli stesso chiude col saggio più lusinghiero in argomento, “Saggistica e stili di pensiero”. Se gli italiani scrivono più che leggere, questo disgraziatamente è più vero per i critici, che non hanno nessuna scusa. Di che scrivono i critici? Di altri critici. I poeti e i narratori si possono pensare costretti ad arrancare per tenersi all’altezza, per non uscire di scena.
Sono diversi anche i lettori. Sentiamo lo stesso Berardinelli: “Il romanzo forse più letto della seconda metà del Novecento, “Cent’anni di solitudine”, è l’esempio di un’epica artificiale, mitico-etnica e barocca che parodizza l’idea occidentale di Storia ambientandola in un mondo in cui la Storia è vanificata”. Ciò è forse nelle intenzioni di Garcia Marquez, se si guarda alla successiva sua produzione, soprattutto al terribile “Autunno del patriarca”, e sicuramente allo stato dei fatti: “Cent’anni di solitudine” si rilegge come una parodia. Ma questo artificio è stato, ed è, l’epica di milioni di lettori, in Italia se non in America Latina, per la forza dell’ideologia, cui la critica certamente non si sottrae: l’interruzione della Storia nel nome della tradizione, della rivoluzione eccetera. L’ultimo residuato del romanticismo eterno.
E gli scrittori? La scrittura italiana è sempre fuori della storia, manzoniana al tempo del terribile Risorgimento, dannunziana al tempo delle trincee, rondista nel fascismo, neorealista nel boom, informe (d'avanguardia) nel terrorismo. Da una quindicina d'anni è quella delle scuole di scrittura. Di Moby Dick e Fandango, di nowhere, nonpersons e no issues, l'epidemia Baricco, che ha anche una scuola di scrittura, una casa editrice e una di produzione cinematografica , dove il postmoderno si cita per la moda, ma la prosa è corretta, bisogna riconoscere, nell’ortografia e aggiornata nella toponomastica globale. Doppiata nell'ultimo lustro dallo stile Internet, delle mail, le chat e i blog, uniforme, giusto un tantino irriverente. È come il restauro dei borghi emiliani, o toscani, o umbri. C’è abbondanza di soldi, architetti e soluzioni tecniche, per risultati di nessun segno. Se non la riproduzione dell’immobiliare, nelle valli e i piani finitimi al “patrimonio dell’umanità”, suprema certificazione di valore. È scrittura cosmetica, il genio è tutto nel saperla vendere.
Dovendo fare una storia della letteratura - l'eccellenza dello stile italiano - il penultimo libro di Faletti, “Niente di vero tranne gli occhi”, il più venduto in Italia nel 2006, rifà Ed McBain, il noir newyorchese, e “Fuori da un evidente destino”, il best-seller 2007, il giallo di ambientazione navajo di Tony Hillermann, o l’Arizona del primo Elmore Leonard. Ma sono solo esercizi di bravura di settecento pagine, di cui è lecito non ricordare nulla. Adesso, a Berardinelli non farà piacere, ma i critici come lui, disponibili, inventivi, brillanti, sono sprecati, in Italia.
Alfonso Berardinelli, “Casi critici. Dal postmoderno alla mutazione”. Quodlibet, pp 418 € 28.

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