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mercoledì 28 novembre 2007

Il mondo com'è (2)

astolfo 

Berlusconi - Per uno della sinistra non c'è dubbio, uno che legga Repubblica, il Corriere, La Stampa, Il Sole, anche Il Sole è di sinistra, ed è pure semplice: Berlusconi è un affarista, un grossolano parvenu, un monopolista di televisioni e un piazzista che racconta le barzellette. Nonché il complice di Craxi, che non si sa cosa voglia dire ma è ingiuria massima. E se uno legge anche Travaglio è un mafioso, un venditore di coca, eccetera. Sarà “vivace e carismatico”, come lo vede il suo confessore novantenne, don Zuliani, ma è uno che fa le corna ai summit, si mette la bandana come fosse in discoteca, a settant'anni, quando riceve ospiti illustri, e ama cantare, canzoni da posteggiatore che egli stesso scrive. Lui è in tutto Melvyn Douglas in “Ninotchka” di Lubitsch, perfino nel doppiopetto e nel riportino, anni Trenta quindi. Ma non può essere solo quello. 
La scienza indigente 
Si fa prima a dire che cosa Berlusconi non è, nell'immaginario del malvagio dei belli-e-buoni che in Italia hanno occupato la sinistra critica: non è un puttaniere. Ma forse perché non ce la fa più. Questo è certo: mai uomo politico fu tanto popolare e tanto odiato - uomo politico per modo di dire, certo: un venditore di pubblicità che si atteggia a statista. La scienza politica avrà da lavorare, se la popolarità viene con l'odio. Volendo conversare con gli amici impegnati non c'è nemmeno da aprire il capitolo. Berlusconi prospera su una ex sinistra che, in ritirata, solo ama raccontarsele, e più ama chi più le spara grosse. Finendo per assomigliarlo, Lui, alla caricatura benevola che ne fa il suo Canale 5, il Satrapo di Arcore, che solo si occupa di toupet e riportini - che è poi quello di Rete 4 e Emilio Fede, con i toupet, i riportini e la faccia velata contro le rughe. L’asorrosariana, per esempio, spararle grosse per sentirsi vivi, épater le bourgeois, che altro, vecchio vezzo alla Pasolini, si fa forte di un Berlusconi che è peggio di Mussolini. Col supporto di Bobbio: è il padre della scienza politica italiana che equipara Berlusconi a Mussolini, nel “Dialogo intorno alla Repubblica” del 2001 con Maurizio Viroli. Uno che presenta se stesso in un precedente libro Laterza come “geniale storico delle idee”, a Princeton, luogo come si sa dei geni.
Per il governo debole 
Volendo prendere questa scienza politica sul serio, se ne può ricordare la paura ricorrente dell’“uomo forte”. Di un esecutivo cioè in grado di governare. Che si è abbattuta su De Gasperi, Fanfani, Craxi, e ora ha nel mirino Berlusconi. Il quale, se ne ha la tentazione, non la manifesta. I suoi governi si sono caratterizzati anzi per un eccesso di prudenza, e formidabili dietro-front. La paura del governo “forte”, che viene nobilitata nell'antifascismo, e nelle ascendenze anarchiche, è peraltro da sempre alimentata dai giornali, che in Italia vogliono dire padronato - la Confindustria, gli Agnelli, De Benedetti, le banche. Tutti centri di potere che chiedono, invocano, un esecutivo attivo, salvo assediarlo implacabili quando uno se ne presenta. Per la solita filologia dei criminali furbi: colpire negando. Se non che, lui lo pretende, ma effettivamente un po' l'ha fatto, ha spostato l’ottica dalla deriva “sovietica” dell’Italia, illiberale, questurina, brezneviana. Saremmo altrimenti qui a parlare di questione morale e campioni nazionali. E di addizionali, magari di circoscrizione e di quartiere dopo quelle regionali e comunali dell’incredibile Visco. Ed è pure vero che - ma è un titolo di merito? - ha fatto il minimo. Tralasciando l’efficienza (la liberalizzazione) dei servizi. Tra essi in primo luogo la giustizia – se non quando personalmente minacciato dai giudici, i giudici disinvolti e protetti di questo sovietismo cafone. Il vero storico delle idee tra qualche anno, e lo storico tout court, anzitutto dovranno classificare Berlusconi alla stregua di Giolitti e Aldo Moro, quindi come un vero statista se gli altri lo furono. Non giganti ma impegnati ad allargare, come la migliore scienza politica nazionale si accanisce a dire da più di un secolo, la democrazia e il parlamentarismo alle forze eversive, i socialisti quello, il Pci Moro, i neofascisti e i leghisti Berlusconi. Uno vede Fini in gessato, con i suoi ex giovani untuosi come se uscissero dalla sacrestia, e non pensa che prima di Berlusconi stavano a mezzo in Parlamento e a mezzo fuori, con i coetanei Alemanno e Storace, mica coi nostalgici Buontempo e Ciarrapico. E che Bossi preparava guardie armate e parlamenti del Nord, folkloristici quanto si vuole ma anche peggio. Berlusconi entra nella storia col programma di recuperare il voto disperso del Centro, che nel 1992 era confluito nella Lega, movimento allora dirompente e quasi eversivo, con l’8,7 per cento del voto, il 23 in Lombardia, il 18,1 a Milano illuminista, il primo partito, tanto che ne esprimerà anche il sindaco - Milano ha avuto un anno dopo un sindaco leghista, Formentini. Berlusconi s’imporrà addomesticando questa rivolta, ben più efficace del tintinnar di manette di Scalfaro - grazie alle politiche golpiste del quale la Lega salì alle elezioni del 1996 al 10,1 per cento (al 25,5 in Lombardia, al 29,3 nel Veneto, al 23,2 in Friuli Venezia Giulia). Nel 2001 la Lega era scesa al 3,9, e poco di più, 4,2, ha ottenuto alle elezioni del 2006 (con percentuali di poco superiori al 10 per cento in Lombardia e Veneto).
Per la governabilità 
Il capitale politico di Berlusconi non è indifferente, è la governabilità. Un’idea semplice, perfino più del mobiliere Aiazzone, o la pubblicità per tutti (un mercato che Berlusconi ha fatto decuplicare in dieci anni - v. i numeri in G.Leuzzi, “«Il Mondo» non abita più qui”, Liguori). Per la quale peraltro gli italiani avevano dato propensione quasi unanime in più referendum,. Nel 1991 e nel 1992. Non ci vuole una grande saggezza politica per impadronirsi della novità. Che poi questa sua promessa sia sempre stata disattesa è un altro discorso: Berlusconi ha sempre fatto governi che, per un qualche motivo di cui comunque lui non è venuto a capo, sono falliti. Cioè, l’altro discorso è come mai Berlusconi continua a capitalizzare con una promessa che non sa o non vuole mantenere. E la risposta è altrettanto semplice: che la domanda di governabilità è enorme, è irrinunciabile. Da una parte il "governo debole", dei furbi, dei forti, dall'altra il governo: la scelta degli elettori è nelle cose. Si può pure dire Berlusconi un venditore di pubblicità. Ma questo non lo diminuisce: la pubblicità è un linguaggio. Complesso. E un'arte. E, come vendere, richiede abilità. Anzi, è tutta qui l'abilità del politico: il buon politico è il buon venditore, di buona pubblicità. La storia italiana è piena di ottime personalità che non sono state buoni politici perché non hanno saputo “vendersi”, da Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari al bellissimo partito d'Azione. Il politico vende idee, e dunque è sulle idee che Berlusconi andrebbe criticato e battuto. Ma questo terreno è insidioso. Tutti i venditori spacciano per buono il loro prodotto, anche se adulterato, perfino se tossico, ma possono farlo una volta sola. Ora, questo Berlusconi domina la piazza da quindici anni. E del resto, nessuno lo contesta, la pubblicità è spettacolo. E dunque Berlusconi è uomo di spettacolo. Innovatore a suo modo – in Italia si direbbe rivoluzionario. Oppure controrivoluzionario, giacché è impegnato a decomunistizzare, dice, l'Italia. Ma è anche vero che l'Italia è l'unico paese (post)sovietico, dei figli e nipoti, delle correnti e le tribù, dei diritti senza mai un dovere, della Rai, la lottizzazione, la disinformacija, la nomenklatura, non solo a Capalbio, e quindi se ne scalfisse la corazza magari farebbe farebbe opera buona. Gli stessi (post)sovietici lo sperano – in queste cose ci vuole uno che vada contropelo. Tanti evidentemente gliene fanno un merito: da un paese preoccupato, dove i ricchi si nascondono, e forse obbligato a piangersi addosso, dal pauperismo parrocchiale, dall'invidia sociale, dallo scongiuro, ha ricavato uno un po' più responsabile. In un paese anti-femmine ha imposto le donne – non le zie e le nonne, donne vive, e meglio se giovani. In un paese di difensori a oltranza sa scegliere e imporre allenatori e squadre d'attacco. A un'umanità di arcigni legulei tenta di dare il gusto del sorriso, l'impresa più ardua. Reagente ancora sano della peste europea, la tigna piena di sé di politicanti residuati prebellici, giornalisti avvinazzati, e signore in carriera rotte a tutto - la rottura a cui si pensa essendo la minore.
Common people
Quanto al populismo, allo sfruttamento inconsiderato del favore popolare, il fenomeno non sarebbe da sottovalutare. La gente, i common people, l’uomo comune, in Italia squalificato dalla scienza politica togliattiana e da Guglielmo Giannini, è entità rispettabile in America, dove il regime plebiscitario, del partito del Capo, da almeno un trentennio ha prevalso sui partiti, e allo stato delle cose li ha obliterati. Il New Deal ne ha creato la figura, Frank Capra l’ha celebrato nei film, il filosofo John Dewey gli dà dignità. Mentre lo sdegno contro l’uomo comune, oggi berlusconiano, ieri democristiano, politicamente detto il Centro, è, quando è sincero, il residuo del notabilato politico più che degli ex partiti di massa, lo stesso che si proclama società civile, una cosa quindi poco onorevole. Berlusconi è ben un determinato storico, bisogna riconoscerlo, la necessaria antitesi se la storia procede hegeliana. Volendo esagerare, si può anche dire che ha disinnescato infine il Lungo Golpe degli anni 1992-96, gli anni di Scalfaro, con gli arresti dei politici a migliaia e la dissoluzione dei Parlamenti appena eletti. È stato ed è l’unico antidoto ai masanielli e paglietta che ci avevano messi in trappola, tra i palazzi della Milano furbamente onesta, aggressivi, moralisti, facinorosi, corrotti nell’animo, e per fortuna inefficienti. Cavaliere in senso specifico, che ci ha liberati. Senza eserciti, col semplice puntare il dito contro il “comunismo”, che c’è e impera, tutti lo sanno, anche se nessuno ne parla, nemmeno i fascisti: il linguaggio critico è sempre quello della Terza Internazionale, la menzogna, la faziosità, la prevaricazione, e l'abominio, la disintegrazione di ognuno che non sia noi, all’insegna dell’intelligenza, del bello-e-buono, della “diversità”. Contro il feroce abominio esercitando strategica la stupidità de “il re è nudo”, la finta ingenuità. Il suo successo è certamente anche un segno di giustizia, l’abbattimento dell’arroganza intelligente: il suo preteso populismo è una sorta di egualitarismo. L'uomo politico tanto popolare e tanto odiato non c'è in nessuna categoria di Max Weber o di Veblen, ma perché gli studiosi venivano prima della Terza Internazionale e del Cominform, il fatto è storicamente datato e politicamente connotato. Oppure, modestamente, vederlo per quello che è, per come si presenta cioè ed è percepito: un pragmatico, chiacchierone ma di buonsenso. Ha governato una prima volta con i liberali, Urbani, Martino, Biondi, Costa, Marzano, la seconda con i democristiani, Scajola, Pisanu, l’onnipresente Gianni Letta, Casini, Follini, e l’incubo ancora continua, ora sembra puntare sui socialisti un po’ laici, i soliti Bonaiuti, Tremonti, Frattini, Boniver, con Sacconi, Brunetta, Cicchitto, Stefania Craxi. Volgare, ma quale milanese non lo è? Ha perfino indotto una certa onestà. A palazzo Chigi (non sgancia una lira) e negli appalti: malgrado l’allerta dei giudici, i suoi assessori hanno molto meno processi di quelli della sinistra. Ma non è giusto parlare di Berlusconi come lui fa, in chiave storica. Doveroso è cercare di vedere quello che è, e più divertente.
La stupidità al potere
Berlusconi non è imbattibile. Un uomo solo, Prodi, lo ha battuto un paio di volte. Berlusconi è anzi il nemico più limitato che si possa avere, impolitico, chiacchierone, un comunicatore da latte alle ginocchia - giusto per Fede. Si è fatto battere nel 1994 dai mediocri Scalfaro, Bossi e Dini, nella sua prima incarnazione spensieratamente liberista - in Italia? Poi più volte da un certo Follini. Nonché da se stesso, con la straordinaria maggioranza del 2001 dissipata in un governicchio (post)democristiano di cui ancora si fatica a misura la radicale inefficienza. Ma incontestabile è anche che quest'uomo vince sempre le elezioni, anche quando le perde - ha sempre ottenuto più voti. Uno che guarda gli spettatori quando parla come se si guardasse allo specchio, senza vederli se non nella sua fattispecie, di cui si compiace. Ma questo specchiarsi dà affidamento perché è onesto, benché limitato. A fronte della superbia del nulla, di burocrati, dinosauri e figli d’arte litigiosi. È così che si porta dietro un buon sessanta per cento degli italiani, compresi molti che proprio non ci riescono a votarlo, e si avvia a immortalarsi statista nei manuali di storia, per quindici anni cesare della derelitta Italia. Dal 1994, dal golpe di Scalfaro e Borrelli che viene etichettato come la rivoluzione italiana. E allora non si capisce: che rivoluzione è stata quella? e chi è questo? Ma è semplice, e di sinistra: Berlusconi è l’enigma della stupidità. In politica. Secondo Jean Paul. È, vincente, la negazione della politica: malaccorto, goffo, gaffeur, uno che parla molto e non si ascolta, affarista, per ciò comunque inadempiente sulla questione morale, e in politica sempre vittorioso. È lo rivelatore della politica, il reagente, il solvente, dell’opinione falsa, ipocrita, golpista, che ha decimato la politica e opprime l’Italia - quando se ne potrà fare la storia si dirà di questo quindicennio che è grigio e spento, e non altro, senza una idea, un progetto, un fatto, se non stare al carro dei potenti, grandi e piccoli. Il bambino, per quanto cresciuto, che dice al re che è nudo, e del solo svelamento, quasi una beffa, si esalta. È l’enigma della politica, che può essere impolitica, come la stupidità è intelligente – e l’intelligenza stupida. A specchio della distinta vocazione alla mediocrità del personaggio, come dei suoi governi. Contro la qualità, nelle scelte politiche, e nella presentazione delle stesse. È il modello delle sue televisioni: Berlusconi non lo progetterà, ma sa, sente, che il consenso si allarga alla base, se “si abbassa il livello”. Insomma, tutto sembra da lui stesso preordinato alla pensosità dei mugwump televisivi, gli ultimi guru della sinistra, quelli che predicano dalla sinistra per andare a destra, o vengono dalla destra per pontificare a sinistra, e alla confusione degli scienziati della politica. Ma alle somme la popolarità di Berlusconi solo in parte, e non la maggiore, nasce dai suoi media, i voti socialisti, democristiani, e dei giovani che raccoglie esprimono odio e sberleffo contro l'odio della sinistra democristiana e dell'ex Pci.
Populismo a Milano
Sul populismo una rivelatoria premessa va peraltro fatta: è Milano 1 che ne ha sancito la vittoria, nel 1992 e poi nel 1994, votando la Lega, è Berlusconi che in qualche modo lo ha contenuto, dandogli dignità di governo. Il trionfo del populismo è stato decretato dalla circoscrizione elettorale dei più ricchi e intelligenti del Paese, gli stessi che in precedenza avevano decretato il successo di Spadolini, e poi quello di Craxi. Volubili più che impegnati, ma questa è Milano, ed è quella che, col supporto della grande editoria e del grande capitale, allora riunito nel salotto buono di Mediobanca, ha determinato la svolta e la storia contemporanea in Italia. Berlusconi è Milano. Che prima ha creato l’antipolitica, con Bossi, Borrelli e lo stesso Berlusconi, e con quest’ultimo la doma, ai suoi fini, ai fini degli affari. Ci sarà insomma da lavorare per lo storico. Ma va pure detto che, benché ne prenda tanti, Berlusconi è uno che sposta a ogni elezione non più di due milioni di voti: prende meno voti di quanti potrebbe. Ecco la radice del fenomeno: l’opinione è largamente profondamente moderata. Si spiega così il lungo soviet di Balduina-Parioli: i fascisti ricchi di Roma gli hanno votato contro per quattro o cinque elezioni perché era moderato. Berlusconi tuttavia prende tanti voti, malgrado la modesta figura ingessata e le cadute di stile, perché ce ne sono quantità strabocchevoli a disposizione. Il segreto del successo dell’incredibile Berlusconi sarà di aver vissuto all’epoca dell’Ulivo. Un’appendice curiosa è invece che sono sempre le donne a far vincere Berlusconi. Nel 1994 la Principato, con l’improvvida perquisizione di Forza Italia. Nel 2001 la Boccassini, con la vergine superteste Ariosto, e i memoriali sconclusionati dell’Ufficio I della Guardia di finanza-L’Espresso: ingressi a forma di fallo, miliardi in bigliettoni sui tavoli… “Mi guardo allo specchio e vedo un onest’uomo” è una delle sue poche parole famose. Tanto più per essere perseguito da un migliaio di giudici. Ma dopo due elezioni vinte, o tre, e con due governi all’attivo. Non trova altro motivo al suo successo che il proprio successo, per generosità onestà, intelligenza eccetera. Non un’idea, non una strategia. Ma questo dà più che altro la misura della sinistra, che gli italiani le votino contro nelle forme vuote di un manichino in vetrina. Non si può dirlo nemmeno culto del capo, e addebitarlo con decenza al fascismo eterno degli italiani – degli “altri” italiani, ovvio, fascisti sono sempre gli altri: Berlusconi non ha carisma, non avendo sostanza. Di suo, Berlusconi esprime confusamente il bisogno confuso di armonia. Di vita operosa e pensiero positivo, contro tutti i tragediatori, che di solito sono reduci della Dc e del Pci. Di reazione alla perfidia dei santori e marcotravagli, della Rai, dei cattolici e dei comunisti, orfani della fede e della rivoluzione. Di pensare in positivo, che è Craxi, il suo craxismo. Craxi, nel suo immenso egotismo, non monetizzò l’intelligenza delle cose, Berlusconi, buon venditore, ne ha fatto una rendita. E senza la superbia del suo mentore, che solo rispettò i più potenti, che erano uno, Andreotti, il quale poi lo perderà, insieme con Forlani e mezza Dc, il Psi, e i partiti laici. Si può dire l’uomo reazionario. Ma allora per essere democratico. La storia ormai è questa: due forze violente monopolizzavano e dividevano l'Italia dopo il lungo golpe giudiziario del 1992, che Berlusconi ha canalizzato nella Costituzione, di cui anzi ora si ritengono gli interpreti migliori. Ma è vero che, da ex imbonitore pubblicitario, non resiste alle masse e all’uguaglianza, una sorta d’istinto lo attrae irresistibile verso il basso. Sulle quali appiattisce anche i sentimenti – è un uomo che non s’innamora, per quanto si attorni di belle donne.
Le quattro dissoluzioni
Il libro di novembre sulla distribuzione della ricchezza fa dell’Italia uno dei paesi democratici a più alta sperequazione sociale, pochi ricchi e molti poveri. Ma questo è l’esito di un ventennio scarso di divaricazione crescente. Ed è l’eredità di Mani Pulite e della sopravvalutazione della lira. Berlusconi semmai vince quale antidoto alla confluenza di un quadruplice cupio dissolvi che da un ventennio ormai insidia l’Italia. La speculazione finanziaria, interna e internazionale, che in Italia (Milano) non trova argini. La Schuldfrage, che i postcomunisti vogliono assolutamente evitare: da qui l’antimafia (tutto è mafia), l’antipolitica (tutto è corruzione), l’antigiustizia (controllo delle Procure), l’antinformazione (controllo delle redazioni). L’indigenza culturale del rettangolo più ricco d’Italia e d’Europa, il Lombardo-Veneto. La secolarizzazione aggressiva, che un anticlericalismo vecchia maniera concentra su Roma. Berlusconi vince sempre perché la spinta dissolutiva è fortissima. La domanda d’identità, di sicurezza, resta anch’essa forte. Ha premiato non solo l’ottimismo di Berlusconi, ma anche il modesto Ciampi dell’inno nazionale, e perfino il vecchio Dante – è commovente, altrimenti inspiegabile, il successo di massa ripetuto della “Divina commedia” di Sermonti e di Benigni, e quale gadget per far vendere “Repubblica” e “Panorama”, giornali peraltro tra i più diffusi. Non per caso Berlusconi è un uomo fortunato, a cui non ne va male una. Un riccastro trimalcionesco che riesce simpatico ai più. Un venditore di pubblicità che diventa uno statista. Un comunicatore così povero, e anzi indigesto, che diventa il re e anzi l’imperatore della comunicazione. Alla quale detta temi, tempi, modi. Forse per questo dal grasso Camilleri alla grassa Bologna il sogno di ucciderlo ha proliferato in questi anni, non essendoci altro mezzo per liberarsene. La capitale del culatello – o è dei tortellini? – ha studiato a lungo e promosso un film “Uccidere Berlusconi”, con apposito sito in Internet. I romanzi con Berlusconi finito, assassinato, devono essere cinque o sei. Più il film di Moretti, dove però non si capisce se salta lui, o è lui, Berlusconi, a far saltare l’Italia. Più la pubblicistica di Gomez e Travaglio, che proficuamente investono sulle inchieste costose e finora fallimentari della giustizia italiana, cioè sui soldi degli italiani. Il destino di quest’uomo sarà stato di arricchire chi lo avvicina, anche se malintenzionato.
L'anti-golpe 
A lungo è stato un “cinghialone” di riserva dopo Craxi per i milanesi. Il capro espiatorio della loro immensa corruzione. Una soluzione semplice. E poi lui si presta. Ha funzionato però male da parafulmine, perché lui è Milano, più abile, e non meno, degli altri. Berlusconi è il “miglior milanese”, per quanti nasi arricciati possa incontrare nella sua città. Avido cioè, abile, costante, profittatore, e buono. Molto buono. L’Italia è governata da quindici anni da Milano, di cui quest’uomo astuto e capace è l’esito migliore. Eccezionale se confrontato agli altri milanesi illustri: gli interisti Moratti e Tronchetti Provera, i Guidirossi moralisti fallimentari, i becchini di Mediobanca, i banchieri pelosi della Curia. È Milano comprese le barzellette. È il cappello di Milano sull’Italia. Con la Lega e Cl, la nuova dc pluralista. È il modo come Milano governa l’Italia. Se non è la parte più nobile, è quella di gran lunga condizionante dell’Italia. Un capro espiatorio difficile da sbranare e digerire perché è fatto della stessa pasta: faccia tosta e impunità. E al gioco degli specchi non è, dopo tanti anni, diverso dalla società che si pretende civile, con le barzellette e tutto. Berlusconi non è il fascismo, è perfino assurdo che la sinistra acculi la destra, la maggioranza dell’elettorato, al fascismo. È Berlusconi: un uomo d’affari, che la destra, anticapitalista, si tiene a malincuore, gli ex fascisti, gli ex Dc, i leghisti, e molti della stessa Forza Italia, i liberali, i socialisti, e perfino della sua famiglia, la famiglia in senso proprio, la moglie e i figli. Facendone una colpa alla sinistra: Berlusconi è stato ed è imposto dalla sinistra. Questo è il risentimento maggiore e il motivo dell’Italia sbracata dei Di Pietro, Borrelli, Scalfaro. Che in qualsiasi democrazia europea non starebbero a sinistra, e sono anzi la vera destra, demagogica, cinica, violenta, ma in Italia sì. È la sinistra in Italia demagogica, cinica, violenta? È ipocrita. Peggio, non c’è altra sinistra che quella che fa votare Berlusconi. Berlusconi ha con sé la forza della disperazione, di chi tenta di sfuggire all'Italia del compromesso storico - l'Italia degli Andreotti, Borrelli, Scalfaro, ed è tutto dire, adagiata sul cuscino elettorale degli ex comunisti. Berlusconi emerge quando il compromesso si consolida col golpe giudiziario, e raccoglie in quasi tutte le elezioni, con costanza rinnovata, quella maggioranza che è anticompromissoria, e quindi antigiudiziaria, antispeculativa, antimedia, cioè contro il conformismo, il velinismo e le caste di partito che governano i media. Il suo perdurante successo è l'interfaccia del compromesso storico soffocante, del "raiume", del politicamente corretto dei grandi giornali di Lor Signori, del controllo fazioso dello Stato, dell'informazione, della giustizia, dei carabinieri (delle intercettazioni, le indiscrezioni, i verbali segreti, le note di servizio). La sinistra dei guitti Si veda la satira in tv, la satira che è di sinistra. C’è un governo che rifila tasse come noccioline, c'è l'inflazione come negli anni Settanta, senza la contingenza e senza un Istat onesto che la rilevi, c’è una corruzione da levare la pelle, impunita, diffusa, bisogna “pagare” anche per avere il gas e la luce, mentre la chiamata, il contratto, le collaborazioni, le consulenze vanno solo agli amici-degli-amici e ai compagni-dei-compagni. O si veda il Berlusconi che Eco tratteggia da una diecina di anni sui giornali, ora un centinaio di pagine della raccolta "A passo di gambero": talmente mediocre e scoperto nella mediocrità, togliattiano, sessantottesco, profittatore, monopolista, corrotto, anche contro la sua volontà, che bisogna chiedersi se gli avversari non sono peggio, dato che non sanno liberarsi di tale nullità, più togliattiani cioè, spregiudicati, corrotti (i giudici?), non contro la loro volontà e anzi di programma (per non dire del torto che Eco, così smart, fa a Togliatti e al Sessantotto). Le amministrazioni di sinistra hanno impoverito e imbruttito Bologna e Firenze con le tasse e la speculazione. Si costruisce ovunque, anche nei parchi pubblici. Non per malanimo, per incrementare gli introiti: quelli delle casse pubbliche, per finanziare la macchina politica, ferocissimo cannibale. Ma non solo i semiologi, i grandi comici della realtà italiana hanno perso la parola, solo sanno fare il Pulcinella-Berlusconi: se non parla Berlusconi loro non sanno che dire. La verità è questa: che trenta milioni di italiani, un buon ottanta per cento degli elettori, debbono tenersi sul gobbo uno che è il più ricco, e possiede dodici ville, per colpa dei comici. Che di una persona di così poco carattere fanno un gigante dei loro spettacoli, Grillo, Benigni, Moretti, eccetera. Non per guadagnare, no, a fin di bene - e si sa già come andrà a finire: fra qualche anno faranno spettacoli per dirci che Berlusconi non era poi male. Il problema è: non come ci liberiamo da Berlusconi, ma come ci liberiamo dai guitti. Non c’è del resto altra sinistra - se non quella della forza pubblica, la carcerazione preventiva, le intercettazioni abusive, le mutande in piazza, e la morte augurata.
Sinistra sinistra
Berlusconi non è furbo. La sua forza nei media, che si ritiene essere la sua forza in politica, Berlusconi ha trasformato in debolezza: non indietreggiando di un palmo, e anzi misconoscendo il conflitto d’interesse, s’è messo contro tutti gli editori, di sinistra e di destra. Per una copia, per un euro di pubblicità. Le sue polemiche sul 25 aprile sono anche segno di pochezza politica: senza il 25 aprile, che è il fondamento della costituzione liberale, Berlusconi sarebbe finito dritto in carcere invece che a Palazzo Chigi, su ordine del suo protetto Fini, con tutto il giustizialismo fascista. Ma ha di fronte di peggio. E' così che il suo stesso antagonizzare gli editori concorrenti si rivolge a suo beneficio. Per l'indigenza dell'informazione. La sinistra, apparentemente sostenuta dai grandi editori concorrenti di Berlusconi, Rai, banche, Fiat, Caltagirone, Confindustria, De Benedetti, è in realtà annichilita da un giornalismo stantio. Che vive di frasi fatte. E il suo impegno di ricerca e di denuncia limita ai dossier di tutori felloni dell'ordine. E a togliere la parola all’avversario prima che parli. Salvo che non abbia qualcosa da dire contro un suo alleato, nel qual caso si fa un’edizione straordinaria – quante volte non abbiamo letto che Bossi critica Berlusconi, e Fini è un gentiluomo, sempre rispetto a Berlusconi? Tutto falso, non solo il giornalista lo sa, anche il lettore. Le epiche sfide, di Cofferati, i girotondini, il professor Zaccaria, i procuratori napoletani, che pure sono miracoli di comunicazione, basandosi sul malaffare dichiarato, sul loro proprio malaffare, corroborano l’inconsistenza di questo privilegio editoriale. Il pastone del Tg1 sicuramente allontana i giovani e i non trinariciuti dalla politica, e quindi dalla sinistra, ma anche le prime pagine di “Repubblica”, del “Corriere”, della “Stampa”. Una voragine - sarà uno dei punti di più ampia analisi per gli storici: la censura costante, la faziosità, il servilismo, tolto il velo rutilante, brillante, sempre compiaciuto. Della sinistra Berlusconi in realtà è il totem, più che lo specchio: è l'unica sua forza politica. L’unica forza di Berlusconi è la debolezza degli altri, le terze file dell’ex Dc e dell’ex Pci. In proprio è l’imprenditore che non capitalizza, benché di successo, in politica ancora meno che nell’economia. L’imprenditore che ha idee, fiuta il mercato, organizza anche, ma non abbastanza, la sua stessa irruenza creativa lo porta a trascurare le condizioni per la stabilizzazione, e perfino a scontrarvisi: le alleanze, i lip services, le lisciatine o adulazioni, e il far guadagnare i potenti. È anche - la cosa più triste - il reagente di un’intellettualità bacata. Leggere Asor Rosa che gli preferisce il fascismo, perché il fascismo era “di massa”. O Lucio Villari che obietta: “Che c’entra, anche Hitler vinse le elezioni”. Uno si chiede: a che punto eravamo? Ci si può certo congratulare dell'impoliticità di storici e letterati. Ma fino a un certo punto. Uno non voterà Berlusconi a pelo, a fiuto, ma a sinistra il puzzo è forte, bisogna proprio turarsi il naso. Senza contare che la storia già si vede, e Berlusconi è il male minore - è la faccia migliore del milanesismo che governa l'Italia, di cui la Lega è la faccia giusta. Politica mercato Si può prendere Berlusconi per quello che è, ma bisogna anche prenderlo sul serio, per quello che nasconde. Nella storia, quella che ormai a tutti gli effettui è l’era Berlusconi, dopo la famosa rivoluzione ambrosiana (in realtà ambro-partenopea), alcune cose sono già avvenute. Ha semplificato lo schieramento politico riottoso, verso un bipartitismo obbligato (la cultura politica italiana solo sa concepire soluzioni obbligate: la famosa “Europa”, l’euro, la flessibilità dopo i licenziamenti di massa). Ha ridato (un po’ di) iniziativa alla politica, seduta dietro i giornalisti-giudici. Ha riassorbito la Lega. Sta liberando la sinistra dalla questione comunista. Qualcosa è già nella storia: Berlusconi è quello che ha evitato all’Italia nel 1994 di naufragare nella palude Dc-Pci, i resti delle possenti armate, con i loro compari ex giudici, gente di mano. E questo è un fatto. L’altro è che lo ha fatto senza barricate. Senza carcere per nessuno. Tutto questo per essere il migliore interprete della politica ridotta a teatrino, come dice lui. O a mercato: lui parla meglio di tutti il linguaggio del bazar con cui i golpisti si camuffavano. Uno che ha avuto successo da imprenditore, come dice lui, non può non essere una garanzia politica. Se la politica appunto è un mercato. Dove Berlusconi, da buon venditore, decanta la sua merce, mentre gli altri si limitano a dire che puzza. Perché non hanno merce, o hanno merce avariata – in tutte le democrazie, anche le più radicalizzate, i politici si rispettano, Zapatero rispetta Rajoy, per esempio, e viceversa, solo in Italia una parte politica non presenta argomenti, solo contumelie.

Chavez - Non si può dire che non sia quello che è, un cacicco sudamericano, irascibile, violento, familistico, amorale, ostile al mondo. Un golpista e un dittatore. Che trova comodo fare il nazionalista antimperialista. Contro gli Usa quindi e contro il cartello del petrolio. Ma a favore del cartello del petrolio vero, dell’Opec, contro il Brasile e Lula, per esempio. Nemico della Spagna socialista, dell’Inghilterra, della Colombia (è per le Farc?). Non si può fargliene una colpa: è quello che è, in questo senso è onesto. Ma cosa c’è in Chavez che un leader politico italiano abbia da adulare e portare a esempio? Che il comunismo possa dire in qualche modo affine? Che l’onestà, se non la ragione politica, trovi degno di nota, se non da additare a esempio? Nulla. C’è che è popolare in Italia: c’è un fondo di cieco anarchismo nella democrazia italiana, di lutulento. Un fondo che è stato correttamente fascista, ma si dice comunista.

Mitrokhin - Si chiude – si chiude? – una vicenda che assomma nel ridicolo tutto il tragico dell’Italia post-comunista. Ridicola per quei suoi consulenti inattendibili e inquietanti. Lo Sgaramella è tutto Totò, anche nel nome. Qualcuno c’è morto, ma nemmeno questo si riesce a sapere se è vero. Ridicola e inquietante, però, la vicenda non è per quello che sottintende quanto per quello che rivela. E cioè che il dossier è stato manipolato. Da mani italiane. Che lo hanno disseminato di spie improbabili. Mani di giornalista, che ha buttato giù i primi nomi che sicuramente non c'entravano, di Gozzano, Lizzadri, Viola. E Prodi, perché no. I servizi segreti italiani manipolano il dossier, col governo D’Alema, e su questo falso si fa una commissione parlamentare d’inchiesta, si nominano superperiti.

Orwell - “La fattoria degli animali” in Italia non sarebbe stato pubblicato. O si sarebbe pubblicato in conto spese, e nessuno l’avrebbe letto. Oppure, se fosse stato letto, si sarebbe detto che è esagerato e di parte, come in effetti è. Da noi solo “don camilli”, un colpo di qua e uno di là, con molte assoluzioni – i preti italiani, si sa, hanno sempre considerato Woytiła un fanatico. Di scrittori come Guareschi, che nel 1946 si mise in salvo per alcuni mesi nella tana del lupo, il giornale del Pci “Milano-sera”.

Weimar - È sempre un mistero politico: perché la prima repubblica in Germania deperisce rapidamente e si suicida. E s’intende: perché i tedeschi erano inadatti alla democrazia. Anche i tedeschi migliori, Thomas Mann, Ernst Jünger. È vero, i tedeschi si sono adattati alla democrazia dopo Hitler, per paura. Ma non è tutto, il mistero resta. Un’altra storia si può raccontare. I tedeschi avevano scelto al repubblica, abbandonando il kaiser e l’impero millenario, per essere accettati nel concerto delle nazioni. Ne furono invece esclusi. Per Weimar hanno operato alcuni dei tedeschi migliori, Rathenau, Stresemann, lo stesso Hindenburg, in una stagione culturale così ricca di opere e di talenti in appena una dozzina d’anni da costituire probabilmente un record storico mondiale. Contro Weimar è bastato Poincaré, con pochi altri francesi ancora più mediocri, nella Slesia dapprima e poi nella Ruhr. È un confronto asimmetrico. Non a favore della Germania, se tanta intelligenza e bellezza furono sconfitti dall’insolenza. In una scena europea che non isolava la Germania e anzi, con le opposte esigenze dell’Urss, dell’Italia, della Gran Bretagna, avrebbe consentito d’isolare e ridurre l’inimicizia preconcetta – quello che Hitler scoprì presto, con suo beneficio. È che a Parigi, e nella repubblica di Weimar, si dava per scontato un secondo, “definitivo”, colpo alla Germania. Salvo trovarsi impreparati quando la sfida fu raccolta. Parlare di Weimar non è inutile – non è da storici. È un caso coerente di istituzioni che deperiscono gravemente e rapidamente. Altre istituzioni deperiscono, più spesso con lentezza, senza colpi di scena, non sempre gravemente, poiché lo stadio finale non s’intravvede, ma con costanza. Apparentemente anche senza motivi, ma perché sono ben celati. 
 

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