All’apparenza lo schema è quello di trent’anni fa: al momento in cui si delinea una convergenza di centro-sinistra insorge lo scandalo. Uno qualsiasi: allora la massoneria, oggi le conversazioni tra funzionari tv. Ma la situazione è diversa, e natura diversa hanno i suoi soggetti – dello scoop incluso, che trae origine da Crespi, un bancarottiere, e un giornalismo anch’esso stantio. Non c’è la forza d’attacco dirompente di allora: un Partito granitico, ancora il maggiore d’Italia, mezza magistratura, un giornalismo convinto, per quanto ugualmente bovino.
Non si è brindato nei tre gruppi ex Dc che la rottura della tenaglia Veltroni-Berlusconi avrebbe dovuto esaltare: è gente navigata in politica, pensa più in là. A differenza che nel 1979, questo Preambolo, del governo dei produttori, esclude solo i comunisti, i Verdi (i Verdi di Pecoraro Scanio, non tutti), e i Di Pietro, i Dini, i Mastella, i politici dell’1 per cento in tv. Un dieci per cento del voto. Non esclude tra l’altro nessuno a destra, se Storace e la Mussolini si riconoscono nel Popolo di Berlusconi. E non ha contro la magistratura, che da segni abbondanti ha abbandonato l’osso Berlusconi.
Lo scandalo sarà rumoroso in campo tv. Senza conseguenze però per Mediaset – i tre partiti ex Dc sono pensosi perché sanno che se il politico B. vince per le tv è perché le tv dà gratuite, ha vinto su questo dei referendum popolari. I giornalisti Rai si serviranno dello scandalo – e su questo si ricompatteranno, l’odiato Vespa compreso – per allontanare ancora di un’altra legislatura lo spettro della privatizzazione: se l’azienda va male è perché c’era l’inciucio. L’argomento sarà irresistibile, ancorché l’inciucio si confini qui a telefonate tra ex colleghi, uno dei quali peraltro le trascriveva quasi giornalmente sul “Foglio”: nessuno in realtà vuole sciogliere la Rai, benché costosa e nefasta (ma anche su questo bisogna intendersi: con i suoi quasi duemila giornalisti la Rai tiene a galla l’Inpgi, cioè le pensioni dei giornalisti).
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