Giuseppe Leuzzi
“A Roma ho visto per la prima volta un ascensore, non sapevo come funzionava e ci sono montato sopra”. L’aneddoto ha varie redazioni, Corrado Alvaro si divertiva a fare il calabrese, che dev’essere uno zotico. Moravia lo prediligeva in questa forma, e lo raccontava a sua volta. Alvaro si divertiva col suo stesso personaggio: raccontava serissimo le peggiori castronerie, perché questo è il modo di raccontare, di “relazionarsi”, dell’intellettuale calabrese, che come ogni altro narratore ama e odia la sua audience, ma in modo accentuato, pallonaro, alla Münchhausen – intellettuale è in Calabria ogni adulto dai due anni in su, c’è questo snobismo. Ma Moravia ci credeva, che Alvaro fosse salito sopra, non dentro, l’ascensore, anche se non è possibile montare sopra la cabina di un ascensore - Nello Ajello ne ha fatto domenica su “Repubblica” un ritratto esilarante, forse non involontariamente, un ritratto di Moravia, nelle celebrazioni del centenario che “Repubblica” ha anticipato.
Alvaro, il solo viaggiatore del Novecento italiano, con Arbasino, ancora leggibile, per i curiosi, i letterari, gli storici. Lo scrittore più cosmopolita, nel senso che parla la lingua dei paesi in cui viaggia o risiede e ne conosce la cultura, non si vanta di aver preso il tè dall’orrenda Ottoline Morrell. Che a Roma era arrivato undicenne, quando Moravia veniva concepito, al collegio dei gesuiti a Mondragone, che lo espulsero ai quindici, alla fine del ginnasio, perché leggeva opere proibite. Non bacchettone quindi ma autore a diciassette di un “Polsi”, sull’omonimo santuario mariano dell’Aspromonte, che ancora si fa leggere. Moravia, narratore e scrittore di viaggi, saggista, impegnato, non bello, non amichevole, maniacale, è icona della letteratura del Novecento di mezzo, forse per ragioni politiche, ideologiche, etniche. Alvaro, che alla rilettura non demerita, non è niente, forse per le stesse ragioni.
Salvatore Lo Piccolo, il mammasantissima, il capo dei capi, prospera(va) con gli appalti, le guardianie e le estorsioni. Tra queste “l’esazione sistematica si una quota sociale per le utenze elettriche: 15 euro per non avere problemi (con l’Enel) e tenere le lampadine accese nei cubi di cemento con i muri in cartongesso dello Zen”, quindici euro al mese. (“La Gazzetta del Sud”, 6 novembre). Ecco, il controllo del territorio.
Stendhal in Calabria nota (“Roma, Napoli e Firenze”) che “i briganti sempre si battevano fino all’ultimo sangue (contro i francesi), quasi sempre sconfitti dal tradimento di compatrioti gregari venduti, piuttosto che dall’audacia degli avversari”. La repressione della criminalità sempre ha fatto difetto.
Antimafia. È scaduta nell’antipolitica e per questo è inefficace e regressiva. Non porta voti (ha eliminato la sinistra a Sud) e magnifica i mafiosi.
Il fallimento di questa antimafia è perfino raccapricciante. Dall’assassinio di Lima a quelli di Falcone e Borsellino: appena l’antimafia ha indicato un nemico, Riina l’ha fatto fuori.
Falcone nemico dell’antimafia? Sì, al Csm, nei giornali di Partito, in troppe trasmissioni tv.
L’antimafia di Orlando e Violante anticipa l’antipolitica.
Ma Violante è il solito cache-sex – anche Caselli: condizionanti in questa antimafia sono stati vecchi arnesi confessionali, Orlando, Lo Forte, Scarpinato, Pintacuda.
Giancarlo Caselli va dall’estetista prima di venire in tv (si presume: è pettinato come la Streep nel "Diavolo veste Prada"). Fa bene, è opportuno distendere i nervi.
Ma poi viene e solennemente dice che la Repubblica è in pericolo a causa di Sgarbi. Perché è più bello di lui?
Nel 1993, o 1994, la Procura di Catanzaro indagò Vittorio Sgarbi, Tiziana Majolo e Giacomo Mancini per mafia. Mancini perché accusato da un pentito, Maiolo e Sgarbi per essere stati eletti in Calabria.
Milano. La città degli affari fatti morale. Milano deve tutto a Scalfari, che ne ha fatto “la capitale morale d’Italia”, una benedizione che è uno slogan di grande effetto pubblicitario, è un programma, ed è un’assoluzione preventiva: Milano è la città dove si ruba impunemente, e anzi facendo la morale al resto d’Italia, per ovvi motivi più che altrove, molto di più, molto di più essendoci da rubare. La città di Berlusconi, Guido Rossi e ogni altro mago e leguleio, che interesse privato, abuso d’ufficio e peculato hanno saputo nobilitare in conflitto d’interessi.
Dove la Procura della Repubblica si fa consulente di un uomo politico. Dove un giudice dice – lo scrive in una lettera pubblica – di essere corrotto, avendo accettato denaro da un inquisito, che poi avrebbe restituito in scatole da scarpe, ricordando nel contempo di avere vinto duecento cause, o duemila, per diffamazione contro chi lo ha per questo criticato. Al milanesissimo processo Sofri tutte le condanne erano scontate – solo Sofri s’illudeva di stare in un processo – e un paio di volte sono state perfino pronunciate prima e fuori del processo, a Brescia e Venezia. Berlusconi è stato processato per la Sme sapendo che non c’entrava, mentre De Benedetti, che c’entrava, no. Il processo Rcs non si è fatto, malgrado la gravità del fatti, compresi i fondi neri per tangenti politiche. Né si farà il processo per il collocamento Saras – i Moratti del resto sono ben piazzati a destra e a sinistra. O a Tronchetti Provera che spiava mezza Italia, avendo egli accettato di mollare l’osso Telecom, come richiesto da Prodi, il politico della consulenza.
La razionalità di questi fatti è quella della cosca. Gli amici e i potenti sono protetti, i nemici sono minacciati e dileggiati, la prevaricazione si vuole evidente, deve intimorire con l’umiliazione.
Nessun commento:
Posta un commento