Chiudere Pomigliano per due mesi per un corso d’efficienza è il segno più tangibile del degrado di Napoli, che non è tanto materia di droga e di camorra quando di cattiva ideologia e mala amministrazione – la malvivenza c’è dappertutto, diventa regola se è la regola del suo tessuto sociale. L’operaio di Napoli è sempre stato professionale, per molte aziende, pubbliche e private (Ibm), il più professionale: rapido, attivo, produttivo. Finché non è intervenuto un certo sindacalismo, con la cultura politica del “non faticare”, che ha voluttuosamente accompagnato la deindustrializzazione dell’area napoletana e il passaggio al terziario. E la Fiat vi trova oggi la sua maggiore area di sofferenza.
Il gruppo torinese, che ha molto investito su Napoli, spostandovi tutta l’Alfa Romeo, la sua area di produzione medio-alta, raddoppiando l’occupazione in un quindicennio di dimezzamento complessivo del personale, dai poco meno di 4.000 ereditati dall’Alfasud a 7.500, non rinuncia e anzi rilancia. Tenere ferma la produzione per due mesi, per mandare i lavoratori a scuola di efficienza, è un grosso investimento. Da cui evidentemente si attende dei risultati. Che non sono però da considerare scontati. L’obiettivo della ristrutturazione è il raddoppio della produzione e – secondo l’ottima informativa di Salvatore Tropea su “Repubblica” – la produzione di componenti per conto della Mercedes. Dal punto di vista industriale è un forte rilancio, ma non dal punto di vista sindacale. Non necessariamente, non a Napoli: qualsiasi altro territorio farebbe faville per assicurarsi una produzione industriale, in Europa, in un settore maturo, con così forti prospettive di sviluppo, Napoli s’interroga. Cioè non s’interroga, non le interessa, non ci sono capitoli speciali da spendere, appalti, affarucci. Meglio il "Vulcano Buono" di Nola: in un centro commerciale, sotto la bandiera di Renzo piano, ci sono soldi per tutti, quello è un impegno per tutti.
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