A vent’anni da Sutherland, “Il crimine dei colletti bianchi”, e a quindici da Franco Cazzola, “L’Italia del pizzo”, che ancora si può leggere da Einaudi, ritorna la sociologia della corruzione, con impianto sistematico: della Porta, sociologa a Firenze, e Vannucci, scienziato della politica a Pisa, elaborano una categorizzazione minuta delle diverse categorie di corruzione. Manca solo la corruzione dei giudici. Anzi, il volume si apre con l’interrogativo: “Cos’è rimasto della “rivoluzione dei giudici”, che tante speranze aveva suscitate nella prima metà degli anni Novanta”? Si dà cioè per scontato che la cosiddetta “rivoluzione italiana” sia partita dai giudici. Il che non contrasta con la storia. Non ancora – finché, cioè, non se ne farà la vera storia. Ma contrasta con la realtà, come gli autori stessi indicano, purtroppo non volontariamente.
La “rivoluzione” si ferma al 1995. E dopo? Dopo ci sono Scalfaro, Dini e l’Ulivo. Ben prima di Berlusconi e i suoi Cirielli vengono cioè i riferimenti politici degli autori. Questo è già un aspetto della questione morale. Nel 1997, a un convegno di “Micromega” che gli autori trascurano, il magistrato di Milano Francesco Greco disse testualmente: “L’Ulivo ha fatto cose che nemmeno Craxi aveva osato fare”. Era un anno o poco più di governo Prodi. Greco si prese per questo un richiamo dal ministro della Giustizia Flick. Poi il giudice Colombo parlò di “ricatti” della Bicamerale, la commissione parlamentare voluta da Berlusconi e D’Alema per fare le riforme. Ma non ci sono stati processi a carico dell’Ulivo, né indagini da parte dei magistrati Greco e Colombo, che di così gravi reati avevano avuto notizia. Questo è il secondo aspetto della questione morale italiana, o lotta alla corruzione: che la questione morale è parte della questione morale.
In base agli indicatori internazionali, della Porta e Vannucci dicono la corruzione molto più diffusa oggi di prima. In particolare a Milano, si può aggiungere per esperienza, per cifre grandi e anche minute – l’impunità è assicurata fino ai 100 mila euro, il processo non conviene. Ma nessuna sociologia si è spinta a rilevare nell’italiano una tradizione o un imprinting di corruttela. E come si potrebbe, la corruzione non è naturale, neppure in Liberia o in Romania, i paesi più corrotti del mondo. La corruzione è sistemica, ed legata alla funzione pubblica. Della Porta e Vannucci ne rilevano le micro-applicazioni: il mercato degli accertamenti, quello delle sanzioni, quello dei poteri di firma. Ma evitano l’evidenza del Caso Italia, che la repressione è essa stessa parte della corruzione. Sovente della funzione pubblica più alta, la giustizia (senza la quale non c’è democrazia: socialismo, sviluppo, progresso).
Dai processi grandi ai processi piccoli si sa che la lotta alla corruzione è selettiva, a orologeria, e perfino illegale – è il caso delle indiscrezioni, di varie forme d’intercettazione, dell’uso strumentale dei pentiti. Se si fanno quattrocento, o cinquecento, perquisizioni negli uffici Mediaset, senza trovare nulla di penalmente rilevante, e non si istruisce un processo nel caso acclarato di ammanco di 1.300 miliardi alla Rcs, per pagamenti in nero, in Svizzera, alle Bahamas, sovrafatturazioni, sottofatturazioni, e factoring fasulli, la corruzione si ritiene patentata. Lo stesso se per l’affare Sme si processa solo Berlusconi e non anche, in base alle tante inchieste documentate, inchieste giornalistiche è vero, Prodi e De Benedetti. La corruzione si diffonde perché è impunita. Grazie anche alla questione morale della “rivoluzione italiana”.
Della Porta Donatella, Vannucci Alberto, “Mani impunite”, Laterza, pp. 258, € 16
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