venerdì 12 ottobre 2007
Governa il partito che non c'è
Si rinverdiscono tra i grandi del giornalismo i fastosi anni 1980, con i partiti trasversali e le campagne tra “Repubblica” e “Corriere”: “Sei il centro mascherato!”, “Tu sei l'estremista!”, il solito ping-pong per allocchi, con aggraziati dibattiti, sul dopo Prodi, che invece – grazie anche a questi manierati duelli – ne ride a Palazzo Chigi. Se ne potrebbe arguire l’indigenza della politica - com'è nell’auspicio dei grandi giornali, che suppliscono a tutto, anche alla politica. Se non fosse che la guerra figurata, con tutti questi bum! e minuetti, serve sempre a coprire il governo reale, del partito che non c’è, della borghesia che si nega. Detto anche partito della crisi, o dell’Italia di merda. Il governo dei supplenti: i belli-e-buoni, un po’ di banca e un po’ di giornali, un po’ di affari e un po’ di moralismo, un po’ di maneggioni e un po’ di sbirri, i mejo.
Il nucleare si chiama Battista
Il “Corriere” affida a Pierluigi Battista, illustre letterato, il rilancio del nucleare in Italia. Con gli argomenti noti: ne ha bisogno la tecnologia e la scienza, ne ha bisogno il costo del kWh, e ne ha bisogno l’ambiente, anche questo, l’effetto serra. È sempre lo stesso procedimento di contornare il problema per non affrontarne gli sgradevoli fattori. Chi, quale azienda può puntare a fare una centrale nucleare in Italia, se non qualche avventuriero per spendersi i soldi di Bersani, magari a titolo di ricerca scientifica? In Italia non si costruisce niente, nemmeno un benefico acquedotto, o un depuratore di acque, se non si passa in mezzo a innumerevoli sbarramenti, politici, amministrativi, giurisdizionali: tutti vogliono qualcosa (hanno qualcosa da dire) e niente si fa. Si fanno solo centrali eoliche inutili, o centrali solari di pronta obsolescenza, perché lì sono i soldi da grattare - con l'Enel non si può.
La ripresa c'è già stata, ora c'è il ristagno
Almunia-Prodi, sembra uno scontro fra titani, ed è una partita truccata: uno 0,2 per cento, nell’aumento del pil o nell’aumento del debito, “non esiste”. La ripresa c’è già stata, pochi mesi dopo l’11 settembre e per gli scorsi cinque anni. Nei quattro quinti del mondo, solo l’Europa ne è rimasta fuori. Questo tutto il mondo lo sa, eccetto l’Italia – c’era da vituperare Bush – e forse la stessa Europa. Ora che la ripresa non c’è più ed è subentrato il ristagno non si può dire nemmeno questo – la colpa è sì di Bush, ma al governo c’è Prodi e quindi le cose vanno bene. Ma ristagna il credito (gli investimenti, i consumi), le banche centrali hanno le armi spuntate, in America e in Europa, e anche l’Asia non tira più molto. Né s’intravede via d’uscita, l’Europa restando arroccata sul suo perbenismo monetario. Si dice che la Germania è in grande spolvero è invece ha quattro milioni di disoccupati, veri, e un governo di coalizione destra-sinistra. Mentre le banche si guardano per vedere quale sarà il prossimo botto, dopo i due fallimenti di settembre.
Il referendum dell'ipocrisia
Non c’è dubbio che l’accordo di luglio su pensioni e lavoro peggiora, e non di poco, la condizione dei lavoratori. Che il sindacato ci abbia voluto su un referendum può significare che lo accetta come il male minore. Che è, come si dice, un sindacato moderno. Ma anche in questo caso è ipocrita – il sindacato e il referendum. Gli “scalini” alla pensione peggiorano lo “scalone” di Maroni: s’innalza di altri due anni, a 62, l’età minima per le pensioni d’anzianità, con sole due finestre anticipate in cinque anni. Si introduce surrettiziamente la diminuzione del coefficiente pensionabile per la previdenza attuale, contributiva. Si introduce lo straordinario senza contributi. Si reintroduce il contratto breve anche oltre i 36 mesi, a tempo indeterminato. Peggio di così non si poteva fare, evidentemente. Basta tuttavia a riportare il mercato del lavoro in Italia alle condizioni da Terzo mondo nelle quali sempre Prodi l’aveva abbandonato dieci anni fa. È la globalizzazione, si dice.
Ma se è necessario che l’Europa e l’Italia tornino a condizioni di lavoro da Terzo mondo, i piccoli passi non sono risolutivi. Non sono il passo indietro per fare il balzo in avanti. Sono un passo indietro nel circolo vizioso: minore competitività, peggiori condizioni di lavoro, minore reddito, minori consumi, minore competitività. Questo si sa, l’Europa avrebbe bisogno di liberarsi una volta per tutte del giogo della spesa pubblica, attraverso un consolidamento del debito, o la liberalizzazione della spesa. Ne avrebbe anche i mezzi se si accettasse per quello che è, l’area più ricca del mondo. Non può invece sopravvivere, dacché ha scelto il rigore monetario, con la contabilizzazione dei decimi di percento, ogni anno, ogni semestre, ogni trimestre, ogni mese, ogni settimana: dieci anni sono stati perduti con questa ginnastica, che ha solo svilito il malato.
Ma poi sono tutte chiacchiere. Il referendum dei sindacati è stato la prova di quello con cui Veltroni s’intronizzerà candidato.
Ma se è necessario che l’Europa e l’Italia tornino a condizioni di lavoro da Terzo mondo, i piccoli passi non sono risolutivi. Non sono il passo indietro per fare il balzo in avanti. Sono un passo indietro nel circolo vizioso: minore competitività, peggiori condizioni di lavoro, minore reddito, minori consumi, minore competitività. Questo si sa, l’Europa avrebbe bisogno di liberarsi una volta per tutte del giogo della spesa pubblica, attraverso un consolidamento del debito, o la liberalizzazione della spesa. Ne avrebbe anche i mezzi se si accettasse per quello che è, l’area più ricca del mondo. Non può invece sopravvivere, dacché ha scelto il rigore monetario, con la contabilizzazione dei decimi di percento, ogni anno, ogni semestre, ogni trimestre, ogni mese, ogni settimana: dieci anni sono stati perduti con questa ginnastica, che ha solo svilito il malato.
Ma poi sono tutte chiacchiere. Il referendum dei sindacati è stato la prova di quello con cui Veltroni s’intronizzerà candidato.
"L'accusa del sangue" all'asta da Christie's
Una riedizione, a breve distanza della precedente (1993), con copertina nera e una fascetta bianca che dice: “Libertà di stampa significa rispondere ai libri con i libri”. David Bidussa, che nell’edizione 1993 della Morcelliana aveva analizzato il rifiuto dello storicismo di Jesi e l’innesto delle mitologie negli eventi e nella loro ricostruzione, fecondo per gli storici, fa per Bollati Boringhieri la “Retorica e grammatica dell’antisemitismo”. La pronta riedizione di Jesi va collegata alla polemica su Toaff e “Pasque di sangue”. Ma a questo quadro meglio soccorre la sintesi che Bidussa faceva allora delle argomentazioni di Jesi sulla recrudescenza dell’antisemitismo nel Novecento: la filosofia emancipazionista, il pregiudizio cristiano (Jesi lo dice cattolico, anche lui, ma è cristiano), il razzismo, la “non civilizzazione” dell’ebreo, il vampirismo tedesco, la catena vampiri\streghe\ebrei.
L’ultimo processo di sangue contro ebrei in Russia fu quello contro Mendel Beiliss nel 1912, al tempo dei pogrom in Ucraina e altrove, il Jakov Bok de “l’uomo di Kiev” di Malamud ("The Fixer"), impersonato al cinema da Alan Bates – che però il processo lo vinse. Mentre il “caso Damasco”, che Jesi rievoca, non solo fu vinto dagli accusati ma portò alla follia, benché non dichiarata, Robert Francis Burton, viaggiatore e letterato a tutti gli altri effetti rimarchevole e molto benemerito, l’esploratore e scrittore che poteva vantare la conoscenza di ventinove lingue, restauratore di molte letterature, dall’Anatolia all’Etiopia. Console a Damasco dal 1868 fu richiamato dopo appena tre anni dal Foreign Office per le sue intemperanze antisemitiche, e nel 1873 mandato a languire al consolato di Trieste. Morendo nel 1890 Burton lasciò manoscritto un “Human Sacrifice among the Sephardine or Eastern Jews” che la vedova Isabel, benché devota cattolica, giudicò impubblicabile, e avrebbe distrutto - ma un capitolo fu pubblicato nel 1896, alla morte di Isabel, col titolo “The Jew, the Gipsy and el Islam”, mentre il manoscritto figura venduto all’asta da Christie’s il 5 giugno 2001.
Cosa spinge un uomo curioso, sicuro cosmopolita, a questa forma folle di odio? Non nichilista, delirante. La stessa di cui soffrirà un secolo dopo Garaudy, filosofo forse non apprezzabile ma apprezzato e importante. La stessa di cui ha sofferto Céline: lo scrittore più “impegnato”, letterariamente e personalmente, di tutto il Novecento, e che sotto l’occupazione tedesca mantenne un contegno irreprensibile, mentre i suoi compatrioti meravigliavano gli stessi tedeschi per lo zelo antiebraico, scrive prima della guerra, e non rinnega dopo la guerra, dei libelli antisemiti folli – disordinati, scomposti, senza un barlume di scrittura, malgrado la parvenza ragionativa di cui si paluda l’antisemitismo. È il risentimento, l’area grigia in cui “Pasque di sangue” di Toaff voleva cominciare a penetrare, ma che evidentemente è campo impraticabile.
L’ultimo processo di sangue contro ebrei in Russia fu quello contro Mendel Beiliss nel 1912, al tempo dei pogrom in Ucraina e altrove, il Jakov Bok de “l’uomo di Kiev” di Malamud ("The Fixer"), impersonato al cinema da Alan Bates – che però il processo lo vinse. Mentre il “caso Damasco”, che Jesi rievoca, non solo fu vinto dagli accusati ma portò alla follia, benché non dichiarata, Robert Francis Burton, viaggiatore e letterato a tutti gli altri effetti rimarchevole e molto benemerito, l’esploratore e scrittore che poteva vantare la conoscenza di ventinove lingue, restauratore di molte letterature, dall’Anatolia all’Etiopia. Console a Damasco dal 1868 fu richiamato dopo appena tre anni dal Foreign Office per le sue intemperanze antisemitiche, e nel 1873 mandato a languire al consolato di Trieste. Morendo nel 1890 Burton lasciò manoscritto un “Human Sacrifice among the Sephardine or Eastern Jews” che la vedova Isabel, benché devota cattolica, giudicò impubblicabile, e avrebbe distrutto - ma un capitolo fu pubblicato nel 1896, alla morte di Isabel, col titolo “The Jew, the Gipsy and el Islam”, mentre il manoscritto figura venduto all’asta da Christie’s il 5 giugno 2001.
Cosa spinge un uomo curioso, sicuro cosmopolita, a questa forma folle di odio? Non nichilista, delirante. La stessa di cui soffrirà un secolo dopo Garaudy, filosofo forse non apprezzabile ma apprezzato e importante. La stessa di cui ha sofferto Céline: lo scrittore più “impegnato”, letterariamente e personalmente, di tutto il Novecento, e che sotto l’occupazione tedesca mantenne un contegno irreprensibile, mentre i suoi compatrioti meravigliavano gli stessi tedeschi per lo zelo antiebraico, scrive prima della guerra, e non rinnega dopo la guerra, dei libelli antisemiti folli – disordinati, scomposti, senza un barlume di scrittura, malgrado la parvenza ragionativa di cui si paluda l’antisemitismo. È il risentimento, l’area grigia in cui “Pasque di sangue” di Toaff voleva cominciare a penetrare, ma che evidentemente è campo impraticabile.
giovedì 11 ottobre 2007
Amanda Davis, "Faith": aveva già le visioni
Fa le prove di “Quando mi amerai”. È impressionante, una preparazione quasi scolastica, anche alle "visioni". O una ispirazione simile a un destino. C’è peprfino il racconto dell’aereo che cade, “Schianto”, come cadrà dopo un paio d’anni quello in cui Amanda morirà, con l’amato padre e la madre.
Rinnova – sottile e resistente come già in Carson McCullers, in filigrana scoperta, quasi dichiarata – quella che si diceva scrittura al femminile. Che ruota attorno all’impossibilità di amare, fisica (il genere), metafisica (l’impossibilità di essere), tragica (il dover morire). A partire da madame di Lafayette (le “Lettere portoghesi” si capisce che sono opera di uomo). Sulla quale Stendhal ha modellato il “nuovo romanzo” dell’Ottocento, il romanzo romantico.
Rinnova – sottile e resistente come già in Carson McCullers, in filigrana scoperta, quasi dichiarata – quella che si diceva scrittura al femminile. Che ruota attorno all’impossibilità di amare, fisica (il genere), metafisica (l’impossibilità di essere), tragica (il dover morire). A partire da madame di Lafayette (le “Lettere portoghesi” si capisce che sono opera di uomo). Sulla quale Stendhal ha modellato il “nuovo romanzo” dell’Ottocento, il romanzo romantico.
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (2)
Giuseppe Leuzzi
C’è, nella superficialità, l’assolutizzazione del male. Il telegiornale parla dell’energia solare, che, in qualche paese, ha attirato l’interesse di alcuni criminali. “Se la mafia ci ha messo gli occhi sopra”, conclude il giornalista verde, “significa che il solare rende, è un buon business”. La mafia come entità metafisica. Non un imprenditore, magari balordo. Certamente non un teppista – come sono tutti i mafiosi quando cominciano.
Polizia. L’istituzione è recente, la sua filosofia appena abbozzata (Foucault, Fontana).
È lo strumento della giustizia: così è sentita, dopo la superfetazione degli apparati – polizia e carabinieri, guardia di finanza, vigili urbani, polizia municipale, polizia provinciale. Ma è l’interfaccia della criminalità, e in questo inevitabilmente uno specchio. Ma in minima parte, il resto è burocrazia, “posti”.
“The Departed” di Scorsese, “Il bene e il male”: la giustizia dei collaboratori di giustizia (chiamati anche pentiti, informatori, spie, infiltrati), un po’ dramma e un po’ farsa, tutto vero – eccetto il finale, dove il buono fa pulizia, rapido, definitivo, sintetico, anzi tacito. Vent’anni dopo “Quei bravi ragazzi”, Scorsese dice la realtà delle mafie: ora predomina la giustizia dei traditori di traditori. Il capomafia informatore dell’Fbi, cui vende i suoi nemici, la figura che per lo spettatore comune è la più inverosimile, è invece la più reale.
Lo spionaggio delle cose ha un valore, rubare un procedimento, un prodotto, fare le scarpe a un concorrente, magari per salvare un’azienda, sia pure la propria. Lo spionaggio delle persone è invece demenza: si parta pure dalla sicurezza dello Stato – dei cittadini: il bene comune – si scende inevitabilmente alla gagliofferia. Criminali che aiutano gli sbirri a tenere in scacco i buoni cittadini, questo sono le spie (gli informatori, i pentiti), non c’è romanziere inglese per quanto bravo che possa indorare questa squallida realtà: è il principio del “fare la spia” che induce alla malvagità.
A Capo Vaticano, tutt’attorno a Tropea, investimenti cospicui sono stati fatti per attirare il turismo della terza età fuori stagione, in primavera e in autunno, con pacchetti di grande convenienza – si possono fare sette giorni in mezza pensione con duecento euro, viaggio aereo compreso. La risposta c’è stata, soprattutto dalla Germania. Si trattava di consolidarla, aspettando il tempo necessario per graduali aumenti che portassero il tutto compreso a un livello redditizio. Ma è bastato poco per far saltare il promettente avvio, come in tante altre false partenze in Calabria col turismo. I frugali ospiti hanno continuato anche a Capo Vaticano, com’è loro abitudine in viaggio, a contenere il pasto di mezzogiorno in un cappuccino al bar e nella mela o l’arancia avanzata dalla cena del giorno prima. Gli esercenti di Capo Vaticano non si sono fatti i conti, si sono offesi: hanno rincarato il cappuccino, e hanno servito la frutta a mezza pensione già sbucciata e tagliata, di preferenza in macedonia. I tedeschi sono scomparsi.
Il turismo può avere la funzione di aprire delle società chiuse, di per sé non è un asset economico, e anzi come investimento è più spesso in perdita, se si sommano ai costi aziendali quelli pubblici e quelli sociali – è il caso della Calabria, se si sommano agli investimenti privati le campagne pubblicitarie di regione, province, comuni e associazioni, gli incentivi ai voli, gli incentivi all’ospitalità (alberghi, agriturismi, bed & breakfast), a fronte di entrate comunque irrisorie. Il turismo è una risorsa anzitutto sociale: è aprendo delle società chiuse che diventa un bene economico, in quanto le proietta nel mondo dell’economia. Dove si fanno i conti invece di arrabbiarsi.
“Il Capitano 2”, come tanti altre fiction poliziesche, ha sbirri e delinquenti che parlano italiano con un mix confuso di pronunce, una distintamente napoletana a Palermo, una palermitana a Reggio Calabria, eccetera. Parlano “meridionale”. Non si possono dire razziste: parlano confusamente una realtà che è essa stessa confusa. Nel “Padrino 3” (o è “Il Padrino 2”? quello in cui De Niro va a Palermo) ognuno ha, nell’edizione originale, la parlata del suo paese d’origine: il barbiere di Gioia Tauro parla come si parla a Gioia Tauro. Anche per questo l’America non è l’Italia. Sarà barbara o primitiva come vogliono i nostri (anti)americanisti, ma filogicamente è accurata, rispettosa.
Terremoti. Dieci anni per ricostruire Assisi e il resto dell’Umbria lesionato (poco) dal terremoto. Altrettanti per restaurare la cattedrale di Noto dopo il crollo. Imprese riuscite, queste due, di cui tutti si congratulano, a fronte dei terremoti che hanno lasciato strascichi ventennali, in Friuli, o trentennali, il Belice. Che pensare allora dei vituperati Borboni, che dopo i terremoti facevano ricostruzioni rapide, ben progettate, ben finanziate? Con studi geodetici-fisici, sismici, architettonici. In Sicilia Orientale, dopo il terremoto del 1683, hanno creato in vent’anni un mondo barocco di una ricchezza impressionante.
Il Sud comincia nel 1860.
C’è, nella superficialità, l’assolutizzazione del male. Il telegiornale parla dell’energia solare, che, in qualche paese, ha attirato l’interesse di alcuni criminali. “Se la mafia ci ha messo gli occhi sopra”, conclude il giornalista verde, “significa che il solare rende, è un buon business”. La mafia come entità metafisica. Non un imprenditore, magari balordo. Certamente non un teppista – come sono tutti i mafiosi quando cominciano.
Polizia. L’istituzione è recente, la sua filosofia appena abbozzata (Foucault, Fontana).
È lo strumento della giustizia: così è sentita, dopo la superfetazione degli apparati – polizia e carabinieri, guardia di finanza, vigili urbani, polizia municipale, polizia provinciale. Ma è l’interfaccia della criminalità, e in questo inevitabilmente uno specchio. Ma in minima parte, il resto è burocrazia, “posti”.
“The Departed” di Scorsese, “Il bene e il male”: la giustizia dei collaboratori di giustizia (chiamati anche pentiti, informatori, spie, infiltrati), un po’ dramma e un po’ farsa, tutto vero – eccetto il finale, dove il buono fa pulizia, rapido, definitivo, sintetico, anzi tacito. Vent’anni dopo “Quei bravi ragazzi”, Scorsese dice la realtà delle mafie: ora predomina la giustizia dei traditori di traditori. Il capomafia informatore dell’Fbi, cui vende i suoi nemici, la figura che per lo spettatore comune è la più inverosimile, è invece la più reale.
Lo spionaggio delle cose ha un valore, rubare un procedimento, un prodotto, fare le scarpe a un concorrente, magari per salvare un’azienda, sia pure la propria. Lo spionaggio delle persone è invece demenza: si parta pure dalla sicurezza dello Stato – dei cittadini: il bene comune – si scende inevitabilmente alla gagliofferia. Criminali che aiutano gli sbirri a tenere in scacco i buoni cittadini, questo sono le spie (gli informatori, i pentiti), non c’è romanziere inglese per quanto bravo che possa indorare questa squallida realtà: è il principio del “fare la spia” che induce alla malvagità.
A Capo Vaticano, tutt’attorno a Tropea, investimenti cospicui sono stati fatti per attirare il turismo della terza età fuori stagione, in primavera e in autunno, con pacchetti di grande convenienza – si possono fare sette giorni in mezza pensione con duecento euro, viaggio aereo compreso. La risposta c’è stata, soprattutto dalla Germania. Si trattava di consolidarla, aspettando il tempo necessario per graduali aumenti che portassero il tutto compreso a un livello redditizio. Ma è bastato poco per far saltare il promettente avvio, come in tante altre false partenze in Calabria col turismo. I frugali ospiti hanno continuato anche a Capo Vaticano, com’è loro abitudine in viaggio, a contenere il pasto di mezzogiorno in un cappuccino al bar e nella mela o l’arancia avanzata dalla cena del giorno prima. Gli esercenti di Capo Vaticano non si sono fatti i conti, si sono offesi: hanno rincarato il cappuccino, e hanno servito la frutta a mezza pensione già sbucciata e tagliata, di preferenza in macedonia. I tedeschi sono scomparsi.
Il turismo può avere la funzione di aprire delle società chiuse, di per sé non è un asset economico, e anzi come investimento è più spesso in perdita, se si sommano ai costi aziendali quelli pubblici e quelli sociali – è il caso della Calabria, se si sommano agli investimenti privati le campagne pubblicitarie di regione, province, comuni e associazioni, gli incentivi ai voli, gli incentivi all’ospitalità (alberghi, agriturismi, bed & breakfast), a fronte di entrate comunque irrisorie. Il turismo è una risorsa anzitutto sociale: è aprendo delle società chiuse che diventa un bene economico, in quanto le proietta nel mondo dell’economia. Dove si fanno i conti invece di arrabbiarsi.
“Il Capitano 2”, come tanti altre fiction poliziesche, ha sbirri e delinquenti che parlano italiano con un mix confuso di pronunce, una distintamente napoletana a Palermo, una palermitana a Reggio Calabria, eccetera. Parlano “meridionale”. Non si possono dire razziste: parlano confusamente una realtà che è essa stessa confusa. Nel “Padrino 3” (o è “Il Padrino 2”? quello in cui De Niro va a Palermo) ognuno ha, nell’edizione originale, la parlata del suo paese d’origine: il barbiere di Gioia Tauro parla come si parla a Gioia Tauro. Anche per questo l’America non è l’Italia. Sarà barbara o primitiva come vogliono i nostri (anti)americanisti, ma filogicamente è accurata, rispettosa.
Terremoti. Dieci anni per ricostruire Assisi e il resto dell’Umbria lesionato (poco) dal terremoto. Altrettanti per restaurare la cattedrale di Noto dopo il crollo. Imprese riuscite, queste due, di cui tutti si congratulano, a fronte dei terremoti che hanno lasciato strascichi ventennali, in Friuli, o trentennali, il Belice. Che pensare allora dei vituperati Borboni, che dopo i terremoti facevano ricostruzioni rapide, ben progettate, ben finanziate? Con studi geodetici-fisici, sismici, architettonici. In Sicilia Orientale, dopo il terremoto del 1683, hanno creato in vent’anni un mondo barocco di una ricchezza impressionante.
Il Sud comincia nel 1860.
mercoledì 10 ottobre 2007
Il sacrificio dei bambini a Rignano
È possibile che le mamme di Rignano stiano distruggendo i loro bambini per comparire in tv? È possibile. E terribile – non che le mamme possano averlo fatto, ma che sia possibile. Il loro caso ripete la serie tv del maresciallo Rocca, una delle cui ultime puntate verte proprio su una scuola elementare teatro di messe sataniche.
I giudici, si sa, non gliene frega molto: bambini sballottati tra ospedali e psicovirago, interrogatori con cuffie e microfonini, interrogatori lunghi due ore, di un bambino?, insomma il teatrino per la tv - tra gli accusatori troneggia Taormina e questo dice tutto. La materia naturalmente è scottante. E poi siamo stanchi delle storie di mafia, e di chi ammazza la fidanzata, nuove frontiere ci vogliono, noi pubblico della tv siamo esigenti.
Lo scandalo è anche che si faccia scandalo su come sia stato possibile, dopo averlo reso possibile, e anzi sollecitato e stimolato, se non inventato. Non c’era bisogno della Cassazione, sono semplicemente agghiaccianti i verbali degli interrogatori dei bambini, tra "streghe, statue e castelli neri". E "i giochi pelusciati"? Linguaggio di mamme, o di psicologhe? Chi sono queste psicologhe dell’infanzia che interrogano bambini di quattro e cinque anni per conto di giudici nell’ombra con cuffie e microfonini, per due ore. Roba da stroncare un bufalo. Senza nessuna scienza di quello che tutti sanno dei ricordi infantili… Ma, certo, la psicologia è proprio scienza da tv, a uso delle masse, nella giornata una ventina di programmi “fanno psicologia”.
Le mamme erano ben curate, di parrucchiere e di estetista, il 25 aprile, giorno della Liberazione, per commentare gli arresti delle maestre. Anche le pose erano vantaggiose, bontà dell’operatore, o tigna delle intervistate. Il piccolo mondo di provincia all’epoca della televisione. La divinità alla quale, come già un tempo, si tornano a sacrificare i figli, perché senza di essa nessun orgasmo e nessun sentimento è più possibile. L’associazione dei genitori, a distanza di due anni, prima della Cassazione si moltiplicava: tutti volevano andare in tv - ora vi si precipitano, sono le ultime occasioni. Ma la trasgressione, che si vuole lieve, è feroce. Riprendere i propri bambini facendoli mimare brutte cose si può ritenere mania veniale: non c’è violenza, e forse non c’è cattiveria. Non c’è neanche memoria, è evidente, in questi genitori.
I giudici, si sa, non gliene frega molto: bambini sballottati tra ospedali e psicovirago, interrogatori con cuffie e microfonini, interrogatori lunghi due ore, di un bambino?, insomma il teatrino per la tv - tra gli accusatori troneggia Taormina e questo dice tutto. La materia naturalmente è scottante. E poi siamo stanchi delle storie di mafia, e di chi ammazza la fidanzata, nuove frontiere ci vogliono, noi pubblico della tv siamo esigenti.
Lo scandalo è anche che si faccia scandalo su come sia stato possibile, dopo averlo reso possibile, e anzi sollecitato e stimolato, se non inventato. Non c’era bisogno della Cassazione, sono semplicemente agghiaccianti i verbali degli interrogatori dei bambini, tra "streghe, statue e castelli neri". E "i giochi pelusciati"? Linguaggio di mamme, o di psicologhe? Chi sono queste psicologhe dell’infanzia che interrogano bambini di quattro e cinque anni per conto di giudici nell’ombra con cuffie e microfonini, per due ore. Roba da stroncare un bufalo. Senza nessuna scienza di quello che tutti sanno dei ricordi infantili… Ma, certo, la psicologia è proprio scienza da tv, a uso delle masse, nella giornata una ventina di programmi “fanno psicologia”.
Le mamme erano ben curate, di parrucchiere e di estetista, il 25 aprile, giorno della Liberazione, per commentare gli arresti delle maestre. Anche le pose erano vantaggiose, bontà dell’operatore, o tigna delle intervistate. Il piccolo mondo di provincia all’epoca della televisione. La divinità alla quale, come già un tempo, si tornano a sacrificare i figli, perché senza di essa nessun orgasmo e nessun sentimento è più possibile. L’associazione dei genitori, a distanza di due anni, prima della Cassazione si moltiplicava: tutti volevano andare in tv - ora vi si precipitano, sono le ultime occasioni. Ma la trasgressione, che si vuole lieve, è feroce. Riprendere i propri bambini facendoli mimare brutte cose si può ritenere mania veniale: non c’è violenza, e forse non c’è cattiveria. Non c’è neanche memoria, è evidente, in questi genitori.
"Fahrenheit": sotto il giallo niente
Non si leggono gialli, dunque, a “Fahrenheit”: tra le migliaia che si sono dati la briga di scrivere a Sinibaldi cosa leggono c’è di tutto ma niente gialli. Nemmeno Camilleri. Può essere un caso, a fronte delle tirature. Ma non insignificante, vista l’enorme platea della trasmissione: anche il lettore di gialli non può che esserne stufo, sono mediocri e invadenti, essendo giallo tutto, gli affari evidentemente, ma pure la politica, il cinema, lo sport, e l’anima del mondo. Non c’è più storia senza suspense, da Troia alla baronessa di Carini. Si fanno domeniche sportive a imitazione del legal thriller e all’insegna del pagliettismo, due ore di chiacchiere invece delle partite - il cui giallo vero invece s’intravede negli armadi dei conduttori. Fa il giallo perfino Maria: la De Filippi crea suspense, prima dei soliti abbracci di buon gusto, magari nel truogolo. C’è giallo ad “Amici” e in camera da letto, coi delitti perfetti che il solito Ris non risolve, malgrado le carissime tecnologie. Per non dire delle intercettazioni. O di Mastella. E gli italiani forse reagiscono – che stanno sempre in attesa di sapere chi ha messo le bombe, a migliaia, ormai da quasi quarant’anni, da Piazza Fontana in poi: non avendo la risposta abbandonano il suspense.
I gialli ancora riempiono le librerie, si vendono in trenta, quaranta e cinquanta edizioni, e per ciò stesso sono benemeriti. Per i librai, gli autori, la lettura. Ma sono sempre più libri che non lasciano niente. Nemmeno il plot. Perfino Camilleri si legge in due ore di treno o d’aereo. E si dimentica. Prima del boom il giallo era lettura d’evasione: si stampava in fascicoli, si vendeva alla sazione, si leggeva nel viaggio, e via. Ora non è più così. O almeno, non ci sono altri libri. Ma la distanza è immensa tra “La donna della domenica”, che pure fu scritta per scherzo, e Faletti o Carofiglio. Sono i best-seller compagni? Camilleri, certo. Carofiglio pure, che il suo personaggio proclama comunista in corsivo, ripetuto, dopo duecento pagine di niente. Ma uno che è comunista solo per non volersi iscrivere al Rotary, per il resto è un borghesuccio, figlio di borghesi, che tradisce la moglie borghese a trent’anni con chi capita, anche a pagamento, fuma ma odia i fumatori di pipa, odia i giocatori di racchettone in spiaggia, odia e disprezza il mondo, eccetto il repertorio della vacanze intelligenti? Ci sono ancora, nella globalizzazone, le letture confessionali (il porta a porta), ma questi non sono buoni compagni.
Il “giallo ovunque” elimina il suspense per la noia. C’è nel giallo lo stesso vuoto dell’altro genere best-seller, il criminale: l’anti-Berlusconi, l’antimafia, l’anticorruzione, l’anti-Moggi, l’antipolitica, con le loro centinaia di titoli sempre ai primi posti nelle vendite. Sono letture che provano tutto e non provano niente. Che si leggono per pigrizia, o per confermarsi. Finché uno non ne può più – la chiesa cresima una sola volta. Si può dire in breve, ma è vero, che il lettore è sovrastato dai clichè subiti e imposti dalla Sicilia (con l’eccezione di Montalbano, è così che Camilleri resta buon scrittore): il male che non c’è, è solo meridionale, le cupole, le famiglie, il politico che è sempre corrotto, il giudice buono, le donne in genere pure, gli stereotipi della nazione che una politica incontinente paradossalmente ha nutrito. Ma ci può essere in questo rifiuto molto di più.
Il giallo è narrazione come gioco. Inventiva, sorpresa. Senza costruzione (linearità, coerenza) psicologica. Anche le passioni vi sono gioco da (de)costruzione. Giallo è anche “Thérèse Desqueyroux”, e “Nodo di vipere”. Perfino “I promessi sposi”, uno aspetta di vedere che fine fanno i cattivi. O “L’uomo e il mare”, o opere altrettanto statiche, liriche, le poesie delle ninfe, gli inni omerici. La differenza è che nel giallo non c’è altro. Il detective è un archetipo. Ogni grande detective di gialli è un “meccanismo” semplice, sotto l’apparente mistero, e esso stesso ripetitivo. Ma incarna (astrae) nella fattispecie una procedura logica – che è insieme complessa e semplice (intuitiva), come ogni fatto logico. È quindi genere democratico. Ma allora deteriore, destinato alla sconfitta – nell’arte militare si direbbe un rovesciamento di fronte, come quando i maneggioni tirano le fila degli sprovveduti, per esempio con le questioni morali.
Il giallo è genere democratico per l’ambientazione, i personaggi e le vicende, morti che non hanno nulla di eroico. Ma soprattutto per l’enfasi che pone sulla giustizia, che è il fondamento dell’uguaglianza. Esplode e s’impone con la democrazia e la domanda di uguaglianza. Più spesso ne dà l’illusione, col giallo alla Christie, con le verbose razionalizzazioni. Da cui le logiche di Eco, di induzioni, deduzioni et sim. Nella sherlockholmesiana e nel noir ne fa invece vedere le tensioni, o l’impossibilità pratica: la giustizia è l’ingiustizia. Il sentimento della giustizia cioè è sconfitto. Non alla Manzoni, o alla Sciascia, non tanto, per l’ambiguità della storia o della provvidenza, ma per le pulsioni invincibilmente perverse degli uomini, e delle donne, e per l’incorreggibile indigenza delle istituzioni. Sciascia immagina il giudice e l’inquirente pensosi, per un’idea della giustizia astratta o magisteriale, da giovane maestro di scuola. Nessuno scrittore vero di giallo-noir si attende nulla dai giudici. Il che ha a che fare con la giustizia – che non è un fatto di tribunali – ma di più con l’enfasi anarchica che sta all’origine della fortuna del genere. È insomma un gioco, aveva ragione Kipling. Divertente anche, se non ci fossero i morti.
Ma ha un effetto secondario: come ogni forma di comunicazione induce la credenza pubblica. È quindi un fenomeno politico, il regime politico essendo ancora elettorale, un’estensione del complotto. Anche il complotto è, come il giallo, genere democratico: ognuno è un detective (il “popolino”), basta poco per creare (individuare) complotti, ordinari, a diecine. I complotti piacciono. Per la natura del complotto, che si costruisce come un giallo - spiega cioè ogni cosa senza che essa debba essere vera. Una corrente di pensiero vuole del resto il giallo, e dunque il complotto, in ogni forma logica: discenderebbe dalla necessità di causa ed effetto. Heisenberg ce ne vorrebbe privare, così presto - è appena un secolo, un secolo e mezzo contando Poe, che l’umanità si gode il giallo e i piaceri della logica. Ma questo è il difetto dell’epagoge, inductio, che abbisogna di una gran quantità di cose per porre il principio logico, o universale. Quante devono essere queste cose? Quanti giudici devono voler fare le scarpe a Mastella perché Mastella li possa denunciare? E quanti affaristi, anche non massoni, Mastella deve frequentare prima che sia dichiarato complice? E la conclusione si può sempre rovesciare.
Si può immaginare un giallo fatto di deduzioni e controdeduzioni, che vadano avanti per duecento pagine, quanto il giallo dev’essere lungo. Oppure di un monte di fatti cui si contrappone un altro monte di fatti. Questo è stato fatto spesso in letteratura, il volgare “visto dall’uno visto dall’altro”. Né vale l‘inverso, l’apagoge, che non è, per quanto forbita, onorevole e anzi è fastidiosa. Ne era maestro Socrate, di cui gli ateniesi si liberarono con sollievo. L’apagoge è l’abduzione, la tecnica per cui si assume la tesi dell’interlocutore per vera, ma poi, unendola a qualche altra proposizione nota come vera, se ne trae una conclusione palesemente falsa, in quanto contraddice la natura delle cose (argomento ad rem), oppure le altre affermazioni dell’interlocutore (argomento ad hominem). Si dice che Sherlock Holmes ne sia maestro, e invece è simpatico perché le evita.
Ma sui segreti non bisognerebbe indulgere, questa è l’unica ricetta, e forse i lettori, se non il giallo, stanno tornando ai fondamentali. Costruzione e decostruzione, struttura e sovrastruttura negano la realtà e la storia, e questo non fa bene ai più, non è propriamente democratico. Mentre la proprietà pedagogica del meccano è nota, era nota a tutti i bambini, da tempo La scienza non ha il senso del ridicolo, con tutte le sue scoperte. Con le profondità della psicologia, per esempio, o della biologia, così piatte. Con il Ris di Parma e le tecniche d’intercettazione, che in un buon giallo si farebbero valere per i buchi, non innocenti. Potrebbe essere una buona tecnica, la scienza, e per tale va presa. Per esempio nell’alchimia del potere, che si vuole arcano per quanto è miserevole, si autodistrugge forse più di quanto distrugge. Rovesciare la realtà è ottimo esercizio d’ingegno, ma la prima diavoleria fu, nel paradiso terrestre, dire bene il male e male il bene.
La giustizia è come il Ris, è sempre insoddisfacente. La giustizia per un cristiano non è affare di legge ma di coscienza: siamo legge a noi stessi. È già così nella tradizione di Socrate, cioè di Platone, ma san Giovanni ne fa un precetto nel suo Vangelo, 1, 17: “La legge fu data a Mosè, la verità e la grazia si diffondono con Gesù Cristo”. Per questo la legge è sempre insoddisfacente. Il male del resto è molto più grande dell’illegalità, assassinio compreso: il rapporto è del cinque, forse dieci, per cento rispetto a tutto il male autoinflitto, a quello della natura, malattia compresa, a quello degli affetti, del lavoro, dell’invidia, della gelosia, dell’avarizia e di ogni altri peccato, e della prepotenza quotidiana, specie di quella dei tutori dell’ordine, che in Italia vogliono essere sbirri.
Ma la logica, compresa del giallo, è semplice. Sherlock Holmes sa già la verità, non la deve dedurre, cioè dimostrare. Perché la verità è democratica, ognuno è buon filologo tedesco (ricordate il precetto che immortala l’“io so” e Pasolini? “Un sapere senza prove precede necessariamente il sapere che si trova”): non ci vuole mica molto per capire. Il complotto è la politica, organizzata nei dettagli, governata, coi tiranti, le redini, la frusta, annunciata, prevista, spiegata perfino, nei talk-show, tra belle gambe. Ma il totalitarismo è furbizia prima che forza, e disegno divino benché indigente. La bugia è inafferrabile se il suo autore ne è anche il regista: Epimenide cretese, Amleto - non nel caso del bugiardo semplice attore: Pinocchio. Per questo sono inestricabili gli intrighi montati dalla polizia. Però sono manifesti. E si torna, dopo l’attesa del nuovo, al paese senza verità.
I gialli ancora riempiono le librerie, si vendono in trenta, quaranta e cinquanta edizioni, e per ciò stesso sono benemeriti. Per i librai, gli autori, la lettura. Ma sono sempre più libri che non lasciano niente. Nemmeno il plot. Perfino Camilleri si legge in due ore di treno o d’aereo. E si dimentica. Prima del boom il giallo era lettura d’evasione: si stampava in fascicoli, si vendeva alla sazione, si leggeva nel viaggio, e via. Ora non è più così. O almeno, non ci sono altri libri. Ma la distanza è immensa tra “La donna della domenica”, che pure fu scritta per scherzo, e Faletti o Carofiglio. Sono i best-seller compagni? Camilleri, certo. Carofiglio pure, che il suo personaggio proclama comunista in corsivo, ripetuto, dopo duecento pagine di niente. Ma uno che è comunista solo per non volersi iscrivere al Rotary, per il resto è un borghesuccio, figlio di borghesi, che tradisce la moglie borghese a trent’anni con chi capita, anche a pagamento, fuma ma odia i fumatori di pipa, odia i giocatori di racchettone in spiaggia, odia e disprezza il mondo, eccetto il repertorio della vacanze intelligenti? Ci sono ancora, nella globalizzazone, le letture confessionali (il porta a porta), ma questi non sono buoni compagni.
Il “giallo ovunque” elimina il suspense per la noia. C’è nel giallo lo stesso vuoto dell’altro genere best-seller, il criminale: l’anti-Berlusconi, l’antimafia, l’anticorruzione, l’anti-Moggi, l’antipolitica, con le loro centinaia di titoli sempre ai primi posti nelle vendite. Sono letture che provano tutto e non provano niente. Che si leggono per pigrizia, o per confermarsi. Finché uno non ne può più – la chiesa cresima una sola volta. Si può dire in breve, ma è vero, che il lettore è sovrastato dai clichè subiti e imposti dalla Sicilia (con l’eccezione di Montalbano, è così che Camilleri resta buon scrittore): il male che non c’è, è solo meridionale, le cupole, le famiglie, il politico che è sempre corrotto, il giudice buono, le donne in genere pure, gli stereotipi della nazione che una politica incontinente paradossalmente ha nutrito. Ma ci può essere in questo rifiuto molto di più.
Il giallo è narrazione come gioco. Inventiva, sorpresa. Senza costruzione (linearità, coerenza) psicologica. Anche le passioni vi sono gioco da (de)costruzione. Giallo è anche “Thérèse Desqueyroux”, e “Nodo di vipere”. Perfino “I promessi sposi”, uno aspetta di vedere che fine fanno i cattivi. O “L’uomo e il mare”, o opere altrettanto statiche, liriche, le poesie delle ninfe, gli inni omerici. La differenza è che nel giallo non c’è altro. Il detective è un archetipo. Ogni grande detective di gialli è un “meccanismo” semplice, sotto l’apparente mistero, e esso stesso ripetitivo. Ma incarna (astrae) nella fattispecie una procedura logica – che è insieme complessa e semplice (intuitiva), come ogni fatto logico. È quindi genere democratico. Ma allora deteriore, destinato alla sconfitta – nell’arte militare si direbbe un rovesciamento di fronte, come quando i maneggioni tirano le fila degli sprovveduti, per esempio con le questioni morali.
Il giallo è genere democratico per l’ambientazione, i personaggi e le vicende, morti che non hanno nulla di eroico. Ma soprattutto per l’enfasi che pone sulla giustizia, che è il fondamento dell’uguaglianza. Esplode e s’impone con la democrazia e la domanda di uguaglianza. Più spesso ne dà l’illusione, col giallo alla Christie, con le verbose razionalizzazioni. Da cui le logiche di Eco, di induzioni, deduzioni et sim. Nella sherlockholmesiana e nel noir ne fa invece vedere le tensioni, o l’impossibilità pratica: la giustizia è l’ingiustizia. Il sentimento della giustizia cioè è sconfitto. Non alla Manzoni, o alla Sciascia, non tanto, per l’ambiguità della storia o della provvidenza, ma per le pulsioni invincibilmente perverse degli uomini, e delle donne, e per l’incorreggibile indigenza delle istituzioni. Sciascia immagina il giudice e l’inquirente pensosi, per un’idea della giustizia astratta o magisteriale, da giovane maestro di scuola. Nessuno scrittore vero di giallo-noir si attende nulla dai giudici. Il che ha a che fare con la giustizia – che non è un fatto di tribunali – ma di più con l’enfasi anarchica che sta all’origine della fortuna del genere. È insomma un gioco, aveva ragione Kipling. Divertente anche, se non ci fossero i morti.
Ma ha un effetto secondario: come ogni forma di comunicazione induce la credenza pubblica. È quindi un fenomeno politico, il regime politico essendo ancora elettorale, un’estensione del complotto. Anche il complotto è, come il giallo, genere democratico: ognuno è un detective (il “popolino”), basta poco per creare (individuare) complotti, ordinari, a diecine. I complotti piacciono. Per la natura del complotto, che si costruisce come un giallo - spiega cioè ogni cosa senza che essa debba essere vera. Una corrente di pensiero vuole del resto il giallo, e dunque il complotto, in ogni forma logica: discenderebbe dalla necessità di causa ed effetto. Heisenberg ce ne vorrebbe privare, così presto - è appena un secolo, un secolo e mezzo contando Poe, che l’umanità si gode il giallo e i piaceri della logica. Ma questo è il difetto dell’epagoge, inductio, che abbisogna di una gran quantità di cose per porre il principio logico, o universale. Quante devono essere queste cose? Quanti giudici devono voler fare le scarpe a Mastella perché Mastella li possa denunciare? E quanti affaristi, anche non massoni, Mastella deve frequentare prima che sia dichiarato complice? E la conclusione si può sempre rovesciare.
Si può immaginare un giallo fatto di deduzioni e controdeduzioni, che vadano avanti per duecento pagine, quanto il giallo dev’essere lungo. Oppure di un monte di fatti cui si contrappone un altro monte di fatti. Questo è stato fatto spesso in letteratura, il volgare “visto dall’uno visto dall’altro”. Né vale l‘inverso, l’apagoge, che non è, per quanto forbita, onorevole e anzi è fastidiosa. Ne era maestro Socrate, di cui gli ateniesi si liberarono con sollievo. L’apagoge è l’abduzione, la tecnica per cui si assume la tesi dell’interlocutore per vera, ma poi, unendola a qualche altra proposizione nota come vera, se ne trae una conclusione palesemente falsa, in quanto contraddice la natura delle cose (argomento ad rem), oppure le altre affermazioni dell’interlocutore (argomento ad hominem). Si dice che Sherlock Holmes ne sia maestro, e invece è simpatico perché le evita.
Ma sui segreti non bisognerebbe indulgere, questa è l’unica ricetta, e forse i lettori, se non il giallo, stanno tornando ai fondamentali. Costruzione e decostruzione, struttura e sovrastruttura negano la realtà e la storia, e questo non fa bene ai più, non è propriamente democratico. Mentre la proprietà pedagogica del meccano è nota, era nota a tutti i bambini, da tempo La scienza non ha il senso del ridicolo, con tutte le sue scoperte. Con le profondità della psicologia, per esempio, o della biologia, così piatte. Con il Ris di Parma e le tecniche d’intercettazione, che in un buon giallo si farebbero valere per i buchi, non innocenti. Potrebbe essere una buona tecnica, la scienza, e per tale va presa. Per esempio nell’alchimia del potere, che si vuole arcano per quanto è miserevole, si autodistrugge forse più di quanto distrugge. Rovesciare la realtà è ottimo esercizio d’ingegno, ma la prima diavoleria fu, nel paradiso terrestre, dire bene il male e male il bene.
La giustizia è come il Ris, è sempre insoddisfacente. La giustizia per un cristiano non è affare di legge ma di coscienza: siamo legge a noi stessi. È già così nella tradizione di Socrate, cioè di Platone, ma san Giovanni ne fa un precetto nel suo Vangelo, 1, 17: “La legge fu data a Mosè, la verità e la grazia si diffondono con Gesù Cristo”. Per questo la legge è sempre insoddisfacente. Il male del resto è molto più grande dell’illegalità, assassinio compreso: il rapporto è del cinque, forse dieci, per cento rispetto a tutto il male autoinflitto, a quello della natura, malattia compresa, a quello degli affetti, del lavoro, dell’invidia, della gelosia, dell’avarizia e di ogni altri peccato, e della prepotenza quotidiana, specie di quella dei tutori dell’ordine, che in Italia vogliono essere sbirri.
Ma la logica, compresa del giallo, è semplice. Sherlock Holmes sa già la verità, non la deve dedurre, cioè dimostrare. Perché la verità è democratica, ognuno è buon filologo tedesco (ricordate il precetto che immortala l’“io so” e Pasolini? “Un sapere senza prove precede necessariamente il sapere che si trova”): non ci vuole mica molto per capire. Il complotto è la politica, organizzata nei dettagli, governata, coi tiranti, le redini, la frusta, annunciata, prevista, spiegata perfino, nei talk-show, tra belle gambe. Ma il totalitarismo è furbizia prima che forza, e disegno divino benché indigente. La bugia è inafferrabile se il suo autore ne è anche il regista: Epimenide cretese, Amleto - non nel caso del bugiardo semplice attore: Pinocchio. Per questo sono inestricabili gli intrighi montati dalla polizia. Però sono manifesti. E si torna, dopo l’attesa del nuovo, al paese senza verità.
martedì 9 ottobre 2007
Severgnini, "L'Italiano" - ben pagato
Duecento pagine per non dire niente. Con la pretesa di essere la vera (buona) Italia. Congruo il prezzo, i best-seller vanno pagati.
Severgnini, Beppe, L'italiano. Lezioni semiserie, Rizzoli, pp.205, € 17,50
"Fratelli di sangue" o la mafia cresimata
Rari, e deiettivi, fino a una ventina di anni fa, i libri di mafia sono ora un genere. Si pubblicano a centinaia ogni anno, anche a opera di firme illustri, Biagi, Bocca, e si vendono a milioni di copie. Fatalmente mitografici. Luigi Lombardi Satriani, che fornisce a "Fratelli di sangue" di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso la nota introduttiva, denuncia subito il circolo vizioso: da rabbia e rassegnazione non viene fuori nulla, e “se, d’altro canto, viene rappresentata la ‘ndrangheta come una realtà tenebrosa”, imprendibile, si favorisce “una spettacolarizzazione,… suscettibile… di ulteriore enfatizzazione, ma senza che essa sia minimamente scalfita”. “Fratelli di sangue” è un best-seller tanto più significativo in quanto è di ardua lettura, tra un migliaio di nomi insignificanti, e modelli organizzativi e gestionali che variano a ogni pagina.
Viene fuori da questi libri una mafia capacissima in tutto, nelle stragi, negli affari, in politica, nell’amministrazione, nell’organizzazione e gestione aziendale, e perfino in filosofia e nelle procedure dibattimentali. Sono appena trent’anni dalla “mafia imprenditrice” di Cordova e Arlacchi, testo seminale del genere, e gli ‘ndranghetisti, benché spesso analfabeti, sono diventati geni del saper fare in ogni campo. Lo sono nei fatti, si dirà, poiché restano vincenti. Ma nei fatti le mafie inciampano: non fanno mai il balzo a borghesia e a ceto dirigente legale, producono insicurezza oltre che violenza, contrariamente alla vulgata sociologica, producono altra mafia, e solo questo sanno fare. Che cos’è allora questa loro ubiqua capacità di dominio? Altro dato è l’alto tasso di violenza tra i clan contrapposti, con centinaia di assassinii ogni anno, impropriamente detto faida. C’è qualcosa che non quadra in questo genere letterario, a parte il legittimo desiderio di vendere molte copie. Quanto all’antimafia basti un solo fatto: a San Luca, dove la guerra di mafia era ripresa feroce tra Natale e metà 2007, gli arresti che avrebbero evitato la strage di Duisburg a Ferragosto sono stati fatti “dopo” la strage. E ancora: dalle intercettazioni, da cui si sapeva con chiarezza della strage in preparazione, risultava che uno dei due fronti aveva una basista a Roma a Cinecittà, una costumista in grado di fornire ottimi camuffamenti, che però non è stata arrestata. È l’antimafia degli informatori-pentiti-mafiosi? In questo senso sì, i mafiosi sono onnipotenti, se, oltre che domare la politica, gestiscono la stessa repressione attraverso i pentiti e le soffiate.
I fatti di questi best-seller sono invece sempre mirabolanti. Già alle pagine 18 e 19 la regia del mercato internazionale della cocaina è calabrese, un sommergibile porta la cocaina in Calabria, un clan chiede a una banca tedesca due miliardi di dollari in rubli per comprarsi una banca, un’acciaieria e una raffineria di petrolio in Russia, mediatore (p. 129) un Sebastiano Filippone, la ‘ndrangheta di Melito Porto Salvo tratta combustibile nucleare, prodotto in Usa dalla General Electric, per venderlo in Zaire. Si può non sapere che cos'è la General Electric, ma la ‘ndrangheta che fattura il 3,4 per cento del pil italiano, cioè una volta e mezzo il pil dichiarato di tutta la Calabria, ben 110 miliardi di euro, anche 120? L'evento è tanto più miracoloso considerando che si sta parlando solo della provincia di Reggio, da Rosarno sul Tirreno a Monasterace sullo Jonio (il confine della mafia è bizzarramente amministrativo). Ci sono diecimila mafiosi censiti in Calabria, di cui 7.300 nella provincia di Reggio, una delle cinque.
Tutto ciò potrebbe essere molto calabrese, di quel particolare humour che si diverte a “sballarle”. A p. 128 il mafioso D’Agostino s’incontra con Gheddafi dal gioielliere Bulgari a Roma. Per preparare la secessione della Calabria e della Sicilia. D’accordo con Concutelli. A p. 155 la ‘ndrangheta riscuote un dollaro e mezzo per ogni container in transito dal porto di Gioia Tauro: poiché Gioia Tauro movimenta 3,5 milioni di container l’anno, la ‘ndrangheta ci ricava 5-6 milioni di dollari, più della società Maesk che gestisce lo scalo, la più grande del mondo. A p. 209 Vito Rizzuto, in carcere negli Usa per omicidio, figlio di Nicolò, in carcere in Canada per droga, stava per “investire cinque miliardi di euro” nel Ponte sullo Stretto. Ma a p. 94 gli autori hanno parlato sul serio: “un calabrese su quattro”, dicono, “è un mafioso”. Senza escludere i bambini, le donne, i vecchi, i bigotti, gli scemi. Succede cosi che, anche se una giornata in Calabria è scandita da incontri ordinari, fruttivendolo, droghiere, tabaccaio, macellaio, qualche vicino di casa, uno ogni giorno ha a che fare con due mafiosi, o poco meno. In appendice il quadro sinottico dei processi per associazione a delinquere in Calabria tra il 1880 e il 1906, e i rituali della ‘ndrangheta - “questa parte”, dicono gli autori, “è tratta integralmente da rapporti giudiziari e sentenze”: si capisce che la mafia, così perseguìta, prosperi.
Non mancano le pezze solide, costruite con le indagini delle polizie federali e statali del Canada e dell’Australia. Ma sommerse dalle fandonie dei pentiti, dalla trita letteratura dell’Onorata Società di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, dei riti del sangue, delle formalistiche massoniche, e naturalmente della Spagna di maniera, manzoniana - qui si risale a Toledo, 1417 (che è già un passo avanti rispetto a Tucidide, Aristotele, Diodoro Siculo, Plutarco e Polibio di p. 21). Gratteri, che pure è magistrato della Dda a Reggio Calabria, e Nicaso danno a questa letteratura anche una certa qualità: “La società è una palla che va girando per il mondo”, dice un innominato capo ‘ndrina, un capetto, “fredda come il ghiaccio, calda come il fuoco, e sottile come la seta”.
È chiaro che è in gioco, oltre al piacere di sballarle, la morfologia del pentito, che è un criminale e per ciò stesso un semianalfabeta, normalmente un autodidatta del carcere: quello del vecchio stampo conosceva Dante a memoria, quello del nuovo sa di Colombia, Turchia, Berlusconi, centrali nucleari, della Russia mercato aperto, e in genere quello che sente al telegiornale. Oppure ha fatto la scuola dell’obbligo: “I personaggi di riferimento dei santisti (capicosca, n.d.r.) sono il generale Alfonso La Marmora come stratega di battaglie e il generale Giuseppe Garibaldi come combattente per la libertà e la giustizia”, spiega il pentito di droga Fonte, “il tutto ha un’evidente radice massonica e un profondo legame storico” (p. 74). Quanto profondo? Uno a volte pensa di avere le allucinazioni. Il pentito avrà fatto il bersagliere? Ma non è tutto: nella stessa p. 74 ci sono i vangeli, che sono più dei santisti, e come riferimento hanno Camillo Benso di Cavour, “somma mente di statista”.
In una regione senza memoria, che anzi ne distrugge con applicazione i segni, tutto si sa, documentato, articolato, della mafia. Non si può che congratularsi: nulla o quasi si sa della Calabria greca, latina, longobarda, bizantina, saracena, normanna, angioina, catalana, borbonica, nemmeno di quella garibaldina, ma tutto si sa della mafia. Se non che questa storia, per quanto dovutamente critica, mette in bella copia una realtà che, per essere contemporanea e sotto gli occhi di tutti, è invece sordida e miserabile. Gli occhi avidi dei lettori, se non le presenze arcigne dei Grandi Autori, proiettano su di essa un’aura di dinamismo e invincibilità. A tutti è chiaro che fra Robin Hood e Totò Riina c’è un abisso siderale, e tuttavia si è riusciti a fare di un volgare assassino, estremamente violento, un personaggio, di cui sappiamo anche il destino della moglie, dei figli, dei possedimenti, e cosa mangia, cosa beve, eccetera.
Una chiave utile di queste pubblicazioni è, tra i tanti topoi, la sorpresa per le donne coinvolte nella ‘ndrangheta. Perché la sorpresa? Perché la donna meridionale è quella del Nord: non quella che ogni meridionale conosce, libera e attiva, ma obbediente e velata donna di casa come la vuole la pubblicistica del Nord, e a cui l’uomo del Sud si confà. Queste pubblicazioni dicono quello che ci si aspetta che dicano: non rivelano e non spiegano, non servono cioè contro la mafia, solo confermano, irrobustendoli, i luoghi comuni. Il lettore non vuole sorprese, vuole confermarsi più che sapere, sono libri da cresima.
Viene fuori da questi libri una mafia capacissima in tutto, nelle stragi, negli affari, in politica, nell’amministrazione, nell’organizzazione e gestione aziendale, e perfino in filosofia e nelle procedure dibattimentali. Sono appena trent’anni dalla “mafia imprenditrice” di Cordova e Arlacchi, testo seminale del genere, e gli ‘ndranghetisti, benché spesso analfabeti, sono diventati geni del saper fare in ogni campo. Lo sono nei fatti, si dirà, poiché restano vincenti. Ma nei fatti le mafie inciampano: non fanno mai il balzo a borghesia e a ceto dirigente legale, producono insicurezza oltre che violenza, contrariamente alla vulgata sociologica, producono altra mafia, e solo questo sanno fare. Che cos’è allora questa loro ubiqua capacità di dominio? Altro dato è l’alto tasso di violenza tra i clan contrapposti, con centinaia di assassinii ogni anno, impropriamente detto faida. C’è qualcosa che non quadra in questo genere letterario, a parte il legittimo desiderio di vendere molte copie. Quanto all’antimafia basti un solo fatto: a San Luca, dove la guerra di mafia era ripresa feroce tra Natale e metà 2007, gli arresti che avrebbero evitato la strage di Duisburg a Ferragosto sono stati fatti “dopo” la strage. E ancora: dalle intercettazioni, da cui si sapeva con chiarezza della strage in preparazione, risultava che uno dei due fronti aveva una basista a Roma a Cinecittà, una costumista in grado di fornire ottimi camuffamenti, che però non è stata arrestata. È l’antimafia degli informatori-pentiti-mafiosi? In questo senso sì, i mafiosi sono onnipotenti, se, oltre che domare la politica, gestiscono la stessa repressione attraverso i pentiti e le soffiate.
I fatti di questi best-seller sono invece sempre mirabolanti. Già alle pagine 18 e 19 la regia del mercato internazionale della cocaina è calabrese, un sommergibile porta la cocaina in Calabria, un clan chiede a una banca tedesca due miliardi di dollari in rubli per comprarsi una banca, un’acciaieria e una raffineria di petrolio in Russia, mediatore (p. 129) un Sebastiano Filippone, la ‘ndrangheta di Melito Porto Salvo tratta combustibile nucleare, prodotto in Usa dalla General Electric, per venderlo in Zaire. Si può non sapere che cos'è la General Electric, ma la ‘ndrangheta che fattura il 3,4 per cento del pil italiano, cioè una volta e mezzo il pil dichiarato di tutta la Calabria, ben 110 miliardi di euro, anche 120? L'evento è tanto più miracoloso considerando che si sta parlando solo della provincia di Reggio, da Rosarno sul Tirreno a Monasterace sullo Jonio (il confine della mafia è bizzarramente amministrativo). Ci sono diecimila mafiosi censiti in Calabria, di cui 7.300 nella provincia di Reggio, una delle cinque.
Tutto ciò potrebbe essere molto calabrese, di quel particolare humour che si diverte a “sballarle”. A p. 128 il mafioso D’Agostino s’incontra con Gheddafi dal gioielliere Bulgari a Roma. Per preparare la secessione della Calabria e della Sicilia. D’accordo con Concutelli. A p. 155 la ‘ndrangheta riscuote un dollaro e mezzo per ogni container in transito dal porto di Gioia Tauro: poiché Gioia Tauro movimenta 3,5 milioni di container l’anno, la ‘ndrangheta ci ricava 5-6 milioni di dollari, più della società Maesk che gestisce lo scalo, la più grande del mondo. A p. 209 Vito Rizzuto, in carcere negli Usa per omicidio, figlio di Nicolò, in carcere in Canada per droga, stava per “investire cinque miliardi di euro” nel Ponte sullo Stretto. Ma a p. 94 gli autori hanno parlato sul serio: “un calabrese su quattro”, dicono, “è un mafioso”. Senza escludere i bambini, le donne, i vecchi, i bigotti, gli scemi. Succede cosi che, anche se una giornata in Calabria è scandita da incontri ordinari, fruttivendolo, droghiere, tabaccaio, macellaio, qualche vicino di casa, uno ogni giorno ha a che fare con due mafiosi, o poco meno. In appendice il quadro sinottico dei processi per associazione a delinquere in Calabria tra il 1880 e il 1906, e i rituali della ‘ndrangheta - “questa parte”, dicono gli autori, “è tratta integralmente da rapporti giudiziari e sentenze”: si capisce che la mafia, così perseguìta, prosperi.
Non mancano le pezze solide, costruite con le indagini delle polizie federali e statali del Canada e dell’Australia. Ma sommerse dalle fandonie dei pentiti, dalla trita letteratura dell’Onorata Società di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, dei riti del sangue, delle formalistiche massoniche, e naturalmente della Spagna di maniera, manzoniana - qui si risale a Toledo, 1417 (che è già un passo avanti rispetto a Tucidide, Aristotele, Diodoro Siculo, Plutarco e Polibio di p. 21). Gratteri, che pure è magistrato della Dda a Reggio Calabria, e Nicaso danno a questa letteratura anche una certa qualità: “La società è una palla che va girando per il mondo”, dice un innominato capo ‘ndrina, un capetto, “fredda come il ghiaccio, calda come il fuoco, e sottile come la seta”.
È chiaro che è in gioco, oltre al piacere di sballarle, la morfologia del pentito, che è un criminale e per ciò stesso un semianalfabeta, normalmente un autodidatta del carcere: quello del vecchio stampo conosceva Dante a memoria, quello del nuovo sa di Colombia, Turchia, Berlusconi, centrali nucleari, della Russia mercato aperto, e in genere quello che sente al telegiornale. Oppure ha fatto la scuola dell’obbligo: “I personaggi di riferimento dei santisti (capicosca, n.d.r.) sono il generale Alfonso La Marmora come stratega di battaglie e il generale Giuseppe Garibaldi come combattente per la libertà e la giustizia”, spiega il pentito di droga Fonte, “il tutto ha un’evidente radice massonica e un profondo legame storico” (p. 74). Quanto profondo? Uno a volte pensa di avere le allucinazioni. Il pentito avrà fatto il bersagliere? Ma non è tutto: nella stessa p. 74 ci sono i vangeli, che sono più dei santisti, e come riferimento hanno Camillo Benso di Cavour, “somma mente di statista”.
In una regione senza memoria, che anzi ne distrugge con applicazione i segni, tutto si sa, documentato, articolato, della mafia. Non si può che congratularsi: nulla o quasi si sa della Calabria greca, latina, longobarda, bizantina, saracena, normanna, angioina, catalana, borbonica, nemmeno di quella garibaldina, ma tutto si sa della mafia. Se non che questa storia, per quanto dovutamente critica, mette in bella copia una realtà che, per essere contemporanea e sotto gli occhi di tutti, è invece sordida e miserabile. Gli occhi avidi dei lettori, se non le presenze arcigne dei Grandi Autori, proiettano su di essa un’aura di dinamismo e invincibilità. A tutti è chiaro che fra Robin Hood e Totò Riina c’è un abisso siderale, e tuttavia si è riusciti a fare di un volgare assassino, estremamente violento, un personaggio, di cui sappiamo anche il destino della moglie, dei figli, dei possedimenti, e cosa mangia, cosa beve, eccetera.
Una chiave utile di queste pubblicazioni è, tra i tanti topoi, la sorpresa per le donne coinvolte nella ‘ndrangheta. Perché la sorpresa? Perché la donna meridionale è quella del Nord: non quella che ogni meridionale conosce, libera e attiva, ma obbediente e velata donna di casa come la vuole la pubblicistica del Nord, e a cui l’uomo del Sud si confà. Queste pubblicazioni dicono quello che ci si aspetta che dicano: non rivelano e non spiegano, non servono cioè contro la mafia, solo confermano, irrobustendoli, i luoghi comuni. Il lettore non vuole sorprese, vuole confermarsi più che sapere, sono libri da cresima.
lunedì 8 ottobre 2007
Ancora uno sforzo, al ribasso, e Az sarà padana
Il peggio di tutto all’Alitalia sono i venditori. Non Tps, che non sa vendere nemmeno se stesso. Ma Prodi, che l’azienda ha avuto in mano per vent’anni, e ora fa di tutto per svendere – la "prodiana" registrerà un giorno che da manager non salvò una sola azienda del suo ricchissimo parco all’Iri, e tutte le svendette, Comit, Credit, Cirio, Gs, Italsider, eccetera. Dieci anni fa, al tornante cruciale, quando tutte le aviolinee europee furono ricapitalizzate fortemente dai relativi Stati, Prodi si arroccò dietro il solito vigilante europeo per dare all’Alitalia un settimo di quanto Air France ebbe dal suo governo. E non contento indebolì anche l’unico manager capace che l’Alitalia abbia avuto dopo Nordio, Domenico Cempella, che già dieci anni fa aveva individuato la via maestra nell’alleanza-fusione europea. Il liquidatore è ora fortemente impegnato a dare il colpo finale all’azienda, l’unica industria, a parte la Rai, nel territorio del suo amico Veltroni. Ci riuscirà? L’obiettivo non è il fallimento, naturalmente, solo un indebolimento che consenta di venderla a poco, a Air France ma con un amico italiano alle costole. Che non è l’Air One di Toto.
Az ha in corpo valore aggiunto che, in piccolo, è tuttavia ben superiore agli utili che i maggiori possono estrarre dal traffico, la British, la Lufthansa e la stessa Air France, palesemente troppo estesa. Basterebbe il Milano-Roma per fare ricca qualsiasi azienda. E poi c’è da vendere l’Italia, che non è difficile. Anche se Alitalia ha tradizione consolidata e molto immaginifica di soperchierie a danno dei viaggiatori incalliti: tariffe capestro, overbooking, endorsement impossibili, nessuna assistenza ai viaggiaori, in aeroporto e fuori, il ricalcolo interminabile della tariffa, magari di un dollaro su cinquecento, nessun follow-up, nessuna fidelizzazione, e perfino un sito web, negli ultimi dieci anni, quando tutti volano via internet, mai aggiornato e mai efficiente. Ha il punto debole, forse per analogia con la sua situazione politica, proprio nelle vendite: in teoria non è concepibile un’azienda che sia così incapace di vendere i propri prodotti come l’Alitalia, promozioni, pacchetti, sconti, compri oggi paghi domani, tariffe modulate, il marketing è inventivo, ma non per Alitalia. L’azienda ha insomma le sue colpe, che s’innestano direttamente sul suo genos originario, quando l’arcifascista (ex) Bruno Velani la creò come un monumento d’italianità, bello, grande, sicuro, ma non benevoente, pieno di se stesso. L’italianità è ora l’ultimo sgambetto all’onore dell’azienda, e alle tasche degli azionisti, Tesoro compreso: bisogna che valga molto poco perché la cordata padana cui sta lavorando il fido Rovati possa comprarsela senza sborsare.
L’Alitalia è la più grande azienda di Roma, più della Rai. Ha 36 mila fornitori. Fa (faceva, e continua a finanziare) l’addestramento dei piloti. Nonché, fin dall’età scolare, la formazione dei tecnici. Ha metà del traffico italiano. Ha un settore tecnico-manutentivo apprezzato e in ottima posizione logistica al centro del Mediterraneo, in grado se valorizzato di servire le grandi aviolinee del Medio Oriente e dell’Asia, e che già guadagna – Lufthansa fa i guadagni in questa metà dell’azienda. Liberandosi di Malpensa, risparmia 50 milioni di maggiori costi. Con la giusta dose di capitale si libererebbe del debito, che comunque è solo a un miliardo. Ma tutto questo dopo, dopo la cessione di favore.
Az ha in corpo valore aggiunto che, in piccolo, è tuttavia ben superiore agli utili che i maggiori possono estrarre dal traffico, la British, la Lufthansa e la stessa Air France, palesemente troppo estesa. Basterebbe il Milano-Roma per fare ricca qualsiasi azienda. E poi c’è da vendere l’Italia, che non è difficile. Anche se Alitalia ha tradizione consolidata e molto immaginifica di soperchierie a danno dei viaggiatori incalliti: tariffe capestro, overbooking, endorsement impossibili, nessuna assistenza ai viaggiaori, in aeroporto e fuori, il ricalcolo interminabile della tariffa, magari di un dollaro su cinquecento, nessun follow-up, nessuna fidelizzazione, e perfino un sito web, negli ultimi dieci anni, quando tutti volano via internet, mai aggiornato e mai efficiente. Ha il punto debole, forse per analogia con la sua situazione politica, proprio nelle vendite: in teoria non è concepibile un’azienda che sia così incapace di vendere i propri prodotti come l’Alitalia, promozioni, pacchetti, sconti, compri oggi paghi domani, tariffe modulate, il marketing è inventivo, ma non per Alitalia. L’azienda ha insomma le sue colpe, che s’innestano direttamente sul suo genos originario, quando l’arcifascista (ex) Bruno Velani la creò come un monumento d’italianità, bello, grande, sicuro, ma non benevoente, pieno di se stesso. L’italianità è ora l’ultimo sgambetto all’onore dell’azienda, e alle tasche degli azionisti, Tesoro compreso: bisogna che valga molto poco perché la cordata padana cui sta lavorando il fido Rovati possa comprarsela senza sborsare.
L’Alitalia è la più grande azienda di Roma, più della Rai. Ha 36 mila fornitori. Fa (faceva, e continua a finanziare) l’addestramento dei piloti. Nonché, fin dall’età scolare, la formazione dei tecnici. Ha metà del traffico italiano. Ha un settore tecnico-manutentivo apprezzato e in ottima posizione logistica al centro del Mediterraneo, in grado se valorizzato di servire le grandi aviolinee del Medio Oriente e dell’Asia, e che già guadagna – Lufthansa fa i guadagni in questa metà dell’azienda. Liberandosi di Malpensa, risparmia 50 milioni di maggiori costi. Con la giusta dose di capitale si libererebbe del debito, che comunque è solo a un miliardo. Ma tutto questo dopo, dopo la cessione di favore.
La F1 deve riparlare inglese
“Piccolo e nero” sì, ma sul noto coro "siamo sempre inglesi". Non c’è solo la Ferrari a far vincere, a settimane alterne, Hamilton e la MacLaren, la Formula 1 è ancora, dove è possibile, imperialmente britannica. Alonso, che può permetterselo avendo strappato due mondiali da outsider, è stato chiaro ieri con “Repubblica”: troppe le decisioni della Fia, quella di giovedì è solo l’ultima di una serie, a favore di Hamilton. La giustizia britannica è naturalmente superiore, la mafia non c'entra: se lo sono scelto “piccolo e nero” e ne faranno un re, la gloriola britannica che si pensava estinta con la decolonizzazione si ripresenta con la multietnicità. Nessuno ci scommette più, ma solo perché non è una scommessa.
Toaff, l'assassinio del libro
Riletto “Pasque di sangue”, non vi si trova lo scandalo. La prima cosa da dire è che Toaff è livornese e non pisano – non è parte della storiografia autoreferente. La seconda è più seria: Toaff tenta di laicizzare (storicizzare) la storia degli ebrei, che torna trionfalistica per effetto perverso dell'Olocausto, l'evento che da alcuni decenni esaurisce tutta la coscienza ebraica. Il revisionismo che l’Olocausto impone - la mancata elaborazione del lutto - è a suo modo “negazionista”, per cui non solo la creazione ma tutta la storia, quella buona, è ebraica. È curiosamente trionfalistico anche l’ebraismo italiano, che era sempre stato laico, da Riccardo di Segni, “Il Vangelo del Ghetto” a Anna Foa, “Ebrei in Europa”. Per una anacronistica reviviscenza dell’ideologia ottocentesca dei primati nazionali, in una col nazionalismo d’Israele. Per l’orgoglio anche, che è la cifra caratteriale della cultura ebraica – c’è qualcosa come il carattere di una cultura. Non mitigata dall’Olocausto e dalla Memoria, come si penserebbe, ma rafforzata e anzi acuita. In contrasto cioè con l’altra cifra caratteriale ebraica, la prudenza. Tre aggettivi stridenti basterebbe a Toaff di sopprimere o modificare, o quattro, di quelli di cui l’ipercritico Ginzburg si compiace, giustamente, poiché concorrono al piacere che dà la lettura dei suoi testi - o forse solo una m al posto di una r, miti invece che riti, in un paio di occasioni.
Tutta la polemica è anticipata dallo stesso Toaff in nota a p. 276, dove rimprovera a Langmuir il rifiuto, “con sdegnosa sicumera”, del collegamento fra lo “stereotipo dell’accusa del sangue” (crocifissione e consumo del sangue) e l’irrisione ebraica di Cristo e dei riti della Passione, supposto da Cecil Roth e Miri Rubin. Nelle sinistre Toledòth Jéshu, le grossolane storie di Gesù redatte con cognizione di causa, da chi conosce i Vangeli, specie nelle omissioni, ironiche, ridicole, sarcastiche, che sono una costante della tradizione ebraica. “La produzione delle Toledòth è un processo continuo d’accumulo di materiale e di rielaborazione sistematica”, afferma lo stesso Di Segni, che ne è studioso, una serie di testi “blasfemi”, una letteratura che ha “fama sinistra” tra i cristiani, e imbarazza gli ebrei. Purim, che spesso coincide con la Settimana Santa, assume col tempo carattere anticristiano e blasfemo – ne ha parlato Frazer, poi non più. Ma è una letteratura viva, che comincia al tempo dei Vangeli, prima quindi della dispersione, dell’anno Mille, delle Crociate, dell’accusa del sangue, delle conversioni forzose, proseguendo fino a fine Ottocento. Non si tratta di risolvere i problemi entro lo schema “da una parte…. dall’altra”, o del cerchiobottismo. Ma di prendere atto che c’è partita, che ci sono, ci sono state, due squadre in campo. Gli storici ebrei, si difende Toaff in anticipo, che vorrebbero collegare l’accusa “a comportamenti ebraici reali, magari malinterpretati, sarebbero intenzionalmente in errore perché timorosi di affrontare apertamente la storiografia cristiana, incapaci di comprendere il potere dell’irrazionale nella mente umana o, peggio, obnubilati dalla velleitaria presunzione che gli ebrei svolgano un ruolo di qualche peso nella storia”.
La fine del paradigma indiziario
La storia di “Pasque di sangue” era dunque stata spiegata e risolta in anticipo, con chiarezza. Da spiegare restano le critiche, specie quelle di Adriano Prosperi e Carlo Ginzburg, su “Repubblica” e il “Corriere della sera”, violente graficamente e sintatticamente.
“Pasque di sangue” si può dire scritto – diversamente dagli altri libri di Toaff, finora storico piano della civiltà materiale dell’ebraismo italiano, “Il vino e la carne”, “Mostri giudei, l’immaginario ebraico”, “Mangiare alla giudia”, e autore, con Alain Elkann, di un “essere ebreo” - in stile Ginzburg. Che lo ha ripagato con un pesante intervento sul “Corriere della sera” del 23 febbraio, “L’errore di Toaff”. L’errore sarebbe stato di accettare il processo per buono, veritiero, cosa che Toaff non fa – e come lo potrebbe uno storico, la verità processuale è la verità del processo (Ginzburg, “Lo storico e il giudice”, una posizione che la Corte Costituzionale ha recepito nel 1998: fine del processo è “l’accertamento giudiziale dei fatti di reato e delle relative responsabilità”). Toaff lascia il processo a se stesso, dopo avere abbondantemente rilevato l’oltranzismo religioso del vescovo di Trento, e il carattere ambiguo delle persecuzioni contro gli ebrei, e anzi dello stesso pregiudizio, più spesso un furbo freddo pretesto per esazioni miliardarie, nonché i casi di bambini scomparsi poi riapparsi. In più punti le testimonianze accusatorie a Trento sono dette inverosimili, oltre che estorte. L’errore è semmai, se lo è, lo “stile Ginzburg” che Toaff adotta, della ricostituzione attraverso la rappresentazione, in uso peraltro nella buona storiografia da sempre, da Tucidide a Quinet. O questo schema interpretativo, che Ginzburg ribadisce nella sua ultima raccolta, “Il filo e le tracce. Vero, falso, finto”, è solo delle culture morte? La creazione di un quadro vivo, vivace, non si attaglia forse a vicende ancora aperte. Ma nella documentazione le pezze d’appoggio sono tante, soprattutto per quanto concerne la letteratura in ebraico, questo anche i suoi terribili critici dovrebbero riconoscerlo a Toaff.
Adriano Prosperi, “Repubblica” 10 febbraio 2007, parte dal presupposto che Toaff provi gli infanticidi, o almeno un infanticidio, per le “Pasque di sangue”. Colpa specifica poi gli fa di annunciare “trionfante di aver trovato “precisi riscontri”” alla testimonianza accusatoria a Trento di un ebreo convertito, che sarebbe stato a suo dire testimone di un infanticidio nel 1740 a Landshut. Mentre Toaff dice: “Sia l’infanticidio di Landshut che il successivo massacro degli ebrei trovano precisi riscontri nei documenti dell’epoca”. Questo testimone, dice Prosperi, era già in carcere per altro reato, cosa che Toaff omette di dire. Ma Toaff lo dice. La sua testimonianza, dice Toaff, fu “decisiva per mettere in moto la feroce macchina giudiziaria”. No, ci fu dell’altro, e Toaff lo racconta. Così come racconta – è una delle parti gustose del libro – le barricate del vescovo di Trento Hinderbach contro il messo papale che voleva vedere chiaro nel processo. Il rimprovero a Toaff di omissione di quelle che sono parti importanti del libro è segno d’irritazione ma ingiusto. Anche perché il metodo di “Pasque di sangue” ricalca quello che Prosperi e Ginzburg hanno proposto trentacinque anni fa in “Giochi di pazienza. Un seminario sul “Beneficio di Cristo””, dello storico come giocatore d’azzardo.
Di appena tre anni più giovane, Toaff ha voluto pagare un tributo indiretto ai due storici “pisani”, identificandosi nello storico come in uno che vuole escogitare e trovare “qualcosa di veramente nuovo” (“Ci sedevamo a un tavolo da gioco dove le carte erano in parte già state distribuite, e le regole fissate…..”). E questo risponde d’anticipo all’unica critica possibile, sul “dubbio coniugio fra l’antropologia dei riti ebraici qui diffusamente esposta e la storia dei rapporti di potere e dei pogrom”. Confusione che però Toaff non fa: non fa la storia del potere e dei pogrom, ma dei riti ebraici, dei riti del sangue – la storia e non l’antropologia, su testi, documenti e immagini, per la prima volta. Usa “la tecnica della drammatizzazione delle ipotesi”, che Prosperi gli rimprovera, componendo un quadro convincentemente vero, oltre che sapido, dell’ebraismo ashkenazita (tedesco) a cavaliere delle Alpi nel tardo medio Evo, che gli ebrei di Roma rigettò sotto il Po, ma non va oltre. Toaff attua la deontologia del buon storico, “essere obiettivo, imparziale, ricercatore della verità”, nel suo senso negativo, “non falsificare i dati della ricerca”, e in quello positivo, avere “una disponibilità illimitata nei confronti di tutto ciò che (ne) può emergere”, e pazienza se questa è la metodologia di Ginzburg-Prosperi. Toaff non va alle estreme conseguenze che Gizburg-Prosperi auspicavano nei primi anni Settanta, perché non cerca di trovare niente. Né usa con le fonti il discutibile metodo di “Giochi di pazienza” – “saremo gli ultimi a scandalizzarci” se gli altri studiosi hanno avuto in materia “presupposti extrascientifici”, giacché “essi li hanno portati a risultati di fatto con cui chiunque deve fare i conti”. Fa uso soltanto di un linguaggio scorrevole, per una storia come narrazione o rappresentazione, e questo forse lo ha perduto, non avendo né Prosperi né Ginzburg gradito l’omaggio (è anche vero che i “Giochi di pazienza”, pubblicato nel 1975, condannavano spiritosamente l’uso delle fonti processuali e delle controversie teologali: “Sarebbe come fare la storia dei gruppi extraparlamentari di sinistra sulla base delle relazioni del procuratore Sossi”, mentre ora si sa che tanto sbagliato non sarebbe stato).
Detto tutto, e forse involontariamente, “Pasque di sangue” segna la fine, o comunque la debolezza, del paradigma indiziario sul quale è stato costruito, per quanto appassionante. Oggetto non a caso della veemente critica di Ginzburg, il padre del paradigma. Ci sono – ci vogliono – interdizioni. Uno è certamente la misura, cardine di ogni giudizio, e quindi anche della storia. Un altro è la completezza – terminati tutti relativi, certo. Vale a questo punto tornate alla formulazione originaria dell’“indizio”, quella dell’“Introduzione all'analisi strutturale dei racconti” di Roland Barthes, del 1966 (tradotta in AA.VV., “L’analisi del racconto”, 1969), come uno dei due componenti di ogni storia, lo scarto, la differenza, l’altro essendo la “funzione”, o rapporto simpatetico tra i segmenti lineari del racconto. L’indizio è efficace artificio narrativo, di storie quindi compiute. La completezza è un altro prerequisito. Anche a costo di fuoriuscire dal “quadro”. E questo a Toaff, ha ragione lui, nessuno la può negare, la conoscenza delle fonti.
La storia è dei padroni?
Le critiche sono state numerose, oltre che scandalizzate. Ma tutte perpetuando paradossalmente l’idea che la storia è quella dei padroni-vincitori. Riccardo di Segni, ora rabbino capo di Roma, rimprovera a Toaff l’uso della “qualifica di “fondamentalisti” assolutamente anacronistica”, che per la verità Toaff circoscrive a gruppi limitati di fanatici che “avevano aggirato o sostituito le norme rituali della halakhah ebraica”, per la forza della tradizione popolare o per consuetudini “impregnate di elementi magici e alchemici”. Gli rimprovera anche la scarsa scientificità, che sarebbe attestata dalla mancata pubblicazione del lavoro via via che si sviluppava in riviste scientifiche. Mentre Toaff attesta che la sua ricerca ha discusso per sei anni in seminari alla sua università Bar-Ilan a Tel Aviv. Che è un’università religiosa benché laica – ha il compito statutario di “sintetizzare l’antico e il moderno, il sacro e il materiale, lo spirituale e lo scientifico” (fondata da un rabbino americano nel 1955, ha il nome di un rabbino berlinese sionista, Meir Bar-Ilan, che lo studio accademico voleva esteso alla Torah, ed è frequentata da ebrei credenti - Yigal Amir, l’assassino di Itzak Rabin, aveva da due anni ripreso gli studi a Bar-Ilan, di legge e ebraismo).
Alcune critiche sono apertamente bizzarre. Prosperi e Ginzburg contestano la serietà della Biblioteca di storia del Mulino. L’1 maggio Prosperi torna sull’argomento, a proposito del libro lampo che Franco Cardini pubblica sul caso: non gli piacciono gli storici che scrivono per i giornali. Adriano Prosperi dunque scrive su un giornale che scrivere per un giornale non è scrivere… Anzi, fa di più: su un giornale insolentisce come autore in cerca di scoop uno storico, Toaff, che non scrive per i giornali. La polemica insomma è subito partita come sempre suole per la tangente – Cardini, che in argomento aveva esordito entusiasta, “chapeau per Ariel Toaff”, “Avvenire” 7 febbraio, produce in poche settimane un libro per pentirsi, “Una riconsiderazione”, introducendo il politicamente corretto nella storiografia: “Ci sono cose di cui è opportuno tacere”.
Gli ashkenaziti, un'altra storia
L’originalità del libro è di situare le Pasque di sangue e la relativa paranoia in ambito germanico, anche “di qua delle Alpi”, tra le colonie ebraiche di origine tedesca che a lungo si mantennero tedescofone. C’era un commercio transalpino di sangue coagulato, indiscutibile (il “sangue giovane” è pregiato negli elettuari tedeschi, eccetera). Il culto del sangue era forte in Germania, tra i cristiani e tra gli ebrei (Isacco, la lebbra del faraone, la circoncisione, che comincia con l’esodo dall’Egitto, la prima piaga d’Egitto…), malgrado le interdizioni bibliche. Gli ashkenaziti erano anticristiani con la stessa virulenza con cui Lutero sarebbe stato antisemita. Questo argomento può essere discutibile, ma di questo si dovrebbe parlare, non accusare Toaff di oscenità.
Ginzburg attribuisce a Toaff, cui toglie la qualifica di studioso, così come a Sergio Luzzatto, ogni demerito, dall’antisemitismo della “Civiltà cattolica” nel 1914 all’abuso della sua autorevolezza, sua di Ginzburg. Da storico, l’accusa al “libro pessimo” è che “l’esistenza di eventi specifici viene provata sulla base di un contesto culturale: un’assurdità”. Ma Toaff non dice che l’accusa a Trento fu provata. Al contrario ricostituisce un contesto culturale di cui s’era persa la memoria, nel quale gli accusati a Trento vivevano e operavano: l’odio reciproco tra ebrei e cristiani in terra tedesca. In un’epoca in cui si faceva commercio di sangue, anche liofilizzato, non necessariamente umano, o non di morti assassinati. Le accuse d’infanticidio rituale e di profanazione dell’ostia erano tipicamente tedesche. È in Germania che la circoncisione e la crocefissione sono rappresentate come violenze semitiche, alla stregua dell’omicidio rituale. Sulla traccia che Isaia Sonne ha individuato nel 1954 in “Da Paolo IV a Pio V”: Yoseph Ha-Cohen (Giuseppe Sacerdoti), uno dei più noti cronisti ebrei del Cinquecento, che molto scrisse contro le false accuse d’infanticidio, “generalmente attribuisce alla deplorevole condotta degli ashkenaziti e alla loro mancanza di scrupoli il deterioramento dei rapporti delle comunità ebraiche in Italia con la società cristiana”, al punto che “gli avvenimenti e le circostanze in cui la responsabilità degli ashkenaziti era accertata… Erano sottaciuti dagli storici ebrei nel timore che portassero acqua al mulino degli antisemiti”.
Anche per questo gli ashkenaziti a lungo si mantennero divisi dagli ebrei che salivano da Roma, oltre che per lingua, riti e pratiche commerciali, quando non “fratelli coltelli”: ci sono più scambi, fra Tre e Cinquecento, tra gli ebrei pedemontani, tedescofoni, ashkernaziti, e gli ebrei di Germania che non tra gli stessi e gli ebrei al di qua del Reno. A metà Quattrocento gli ebrei romani sono praticamente espulsi dalle città venete, più spesso a opera dei concorrenti ashkenaziti. La Comunità tedesca separata dalle altre è ancora nella classica memoria di Giorgio Bassani, “Il giardino dei Finzi-Contini” - la sinagoga italiana è al secondo piano, al piano nobile c’è quella tedesca, “così diversa nella sua severa accolta, quasi luterana, di lobbie borghesi”. In una pluralità distinta di comunioni, certo: “Le varie cosiddette Nazioni nelle quali era divisa nel Cinque e Seicento la Comunità veneziana, la Nazione levantina, la ponentina, la tedesca, l’italiana”, e all’interno della ponentina c’erano almeno quattro distinti riti e tempi, spagnolo, portoghese, catalano e provenzale. La superbia dei tedeschi avrà pure avuto qualche fondamento (al processo di Trento Anna da Montagnana, donna di casa, sa leggere l’ebraico e tradurlo), ma nondimeno tale è - il protagonista del racconto si fa anche raccontare dal professor Finzi-Contini “l’ideale dell’ottimo storico”, in questi termini: “Il raggiungimento della verità, senza però mai smarrire per istrada il senso dell’opportunità e della giustizia”.
La colpa è di Toaff
La colpa di Toaff è in ciò che egli non dice ma rappresenta, documentandolo: che l’odio fra ebrei e cristiani era, in certe comunità, reciproco. È cioè il cuore del libro, della ricerca. Quanto reciprocamente feroce la rappresentazione non può dire. La storia documenta unicamente persecuzioni di ebrei a opera di cristiani, e in questo senso è scritta, incontestata. Ma se l’odio e il disprezzo sono forti anche nei perseguitati, perché non dirlo? Lo storico cerca la storia. Prima e al di là della colpa, che certo è cristiana. Lo storico non si limita a dire che i cristiani sono malvagi, ce ne dice anche i motivi e le circostanze. Che non è un giudizio, con assoluzioni e condanne, non in senso giuridico. Le prove, dice Aristotele, sono il “nucleo essenziale” dello storico. Ma la storiografia nella “Retorica” di Aristotele, che mostra di condividere, Ginzburg formula in “Rapporti di forza”, p.62, “come segue:
a) la storia umana può essere ricostruita sulla base di tracce, indizi, sēmeia;b) tali ricostruzioni implicano tacitamente una serie di connessioni naturali e necessarie (tekmēria) che hanno carattere di certezza: Fino a prova contraria un essere umano non può vivere duecento anni, non può trovarsi contemporaneamente in due posti diversi, etc.;
c) al di fuori di queste connessioni naturali gli storici si muovono nell’ambito del verosimile (eikos), talvolta dell’estremamente verosimile, mai del certo – anche se nei loro scritti la distinzione tra “estremamente verosimile” e “certo” tende a sfumare”.
Toaff, malgrado lo stile, si mantiene sobrio. Sa forse che c’è la prova di Lutero alla radice della odierna cultura del sospetto, di Marx, Nietzsche, Freud, e del paradigma indiziario: non so se gli ebrei uccidono i bambini e avvelenano le acque, però so che se lo potessero fare non gliene mancherebbe la volontà. Toaff si mantiene su questo con fermezza saldo: bisognerebbe prima conoscere tutti gli ebrei, uno per uno. Fare spazio cioè anche al non sospetto, altrimenti la prova è un sottoprodotto kantiano. “Pasque di sangue” è un quadro della presenza ebraica in Italia, attiva, non marginale, diversificata. Uno dei più solidi libri di storia, di storia d’insieme, di un fenomeno legato al suo tempo, Toaff è efficace creatore del contesto. Un libro documentato e ben organizzato, e quindi saggio. Cosa gli manca? Una minima cura redazionale, quasi nulla: tre, forse quattro, aggettivi da calibrare, o al limite eliminare - e a p. 112 “la Domenica delle Palme, mercoledì 22 marzo”. C’è anche lo “scambio amoroso con le fonti” che Natalie Zemon Davis rileva fra gli storici. Ma con effetti positivi più che negativi, poiché Toaff sa far rivivere roba sepolta da tempo. Ariel Toaff è socio onoraro dell’Aisg, l’Associazione Italiana per lo Studio del Giudaismo. Ma meno distaccato di Heine che scrive “Il rabbino di Bacharach”, il rabbino che si allontana dalla sua comunità quando essa cade sotto l’accusa del sangue. Delle critiche il meno che si può dire è che hanno perpetrato l’assassinio di un libro. Non rituale, volontario. Per un movente che non sappiamo, e forse non c’è – la stampa talvolta si annoda su stessa, l’opinione pubblica: l’abominio è pretestuoso, del tutto, e sa di interdetto e non di condanna argomentata, malgrado l’autorevolezza dei giudici.
Che dirne? Poiché è della vicenda editoriale che si è discusso e non del merito della ricerca – non del merito della ricerca – la verità è l’incredibile perdurante assunto, tanto più incredibile in questa epoca di contestazione globale dell’Europa, nella globalizzazione e sotto la sfida dell’integralismo religioso, che l’Europa si riduca al papa, anzi al papa e all’inquisizione, cinquecento anni di storia moderna, quando non i suoi due millenni abbondanti di vita. Assurdo più che incredibile assunto dei modernisti, che limitano la loro attività all’argomento più becero della controversistica protestante, poi massonica, ringhiosi cani da guardia di una “verità” che dovrebbero invece combattere. Un omaggio diabolico al papa, che altro dire?, ma che c’entrano gli storici? O è la miseria della storia, e della stessa tolleranza, quale la storia la registra: la ferocia è purtroppo connaturata all’intolleranza dei tolleranti, tanto sono pieni di sé.
Tutta la polemica è anticipata dallo stesso Toaff in nota a p. 276, dove rimprovera a Langmuir il rifiuto, “con sdegnosa sicumera”, del collegamento fra lo “stereotipo dell’accusa del sangue” (crocifissione e consumo del sangue) e l’irrisione ebraica di Cristo e dei riti della Passione, supposto da Cecil Roth e Miri Rubin. Nelle sinistre Toledòth Jéshu, le grossolane storie di Gesù redatte con cognizione di causa, da chi conosce i Vangeli, specie nelle omissioni, ironiche, ridicole, sarcastiche, che sono una costante della tradizione ebraica. “La produzione delle Toledòth è un processo continuo d’accumulo di materiale e di rielaborazione sistematica”, afferma lo stesso Di Segni, che ne è studioso, una serie di testi “blasfemi”, una letteratura che ha “fama sinistra” tra i cristiani, e imbarazza gli ebrei. Purim, che spesso coincide con la Settimana Santa, assume col tempo carattere anticristiano e blasfemo – ne ha parlato Frazer, poi non più. Ma è una letteratura viva, che comincia al tempo dei Vangeli, prima quindi della dispersione, dell’anno Mille, delle Crociate, dell’accusa del sangue, delle conversioni forzose, proseguendo fino a fine Ottocento. Non si tratta di risolvere i problemi entro lo schema “da una parte…. dall’altra”, o del cerchiobottismo. Ma di prendere atto che c’è partita, che ci sono, ci sono state, due squadre in campo. Gli storici ebrei, si difende Toaff in anticipo, che vorrebbero collegare l’accusa “a comportamenti ebraici reali, magari malinterpretati, sarebbero intenzionalmente in errore perché timorosi di affrontare apertamente la storiografia cristiana, incapaci di comprendere il potere dell’irrazionale nella mente umana o, peggio, obnubilati dalla velleitaria presunzione che gli ebrei svolgano un ruolo di qualche peso nella storia”.
La fine del paradigma indiziario
La storia di “Pasque di sangue” era dunque stata spiegata e risolta in anticipo, con chiarezza. Da spiegare restano le critiche, specie quelle di Adriano Prosperi e Carlo Ginzburg, su “Repubblica” e il “Corriere della sera”, violente graficamente e sintatticamente.
“Pasque di sangue” si può dire scritto – diversamente dagli altri libri di Toaff, finora storico piano della civiltà materiale dell’ebraismo italiano, “Il vino e la carne”, “Mostri giudei, l’immaginario ebraico”, “Mangiare alla giudia”, e autore, con Alain Elkann, di un “essere ebreo” - in stile Ginzburg. Che lo ha ripagato con un pesante intervento sul “Corriere della sera” del 23 febbraio, “L’errore di Toaff”. L’errore sarebbe stato di accettare il processo per buono, veritiero, cosa che Toaff non fa – e come lo potrebbe uno storico, la verità processuale è la verità del processo (Ginzburg, “Lo storico e il giudice”, una posizione che la Corte Costituzionale ha recepito nel 1998: fine del processo è “l’accertamento giudiziale dei fatti di reato e delle relative responsabilità”). Toaff lascia il processo a se stesso, dopo avere abbondantemente rilevato l’oltranzismo religioso del vescovo di Trento, e il carattere ambiguo delle persecuzioni contro gli ebrei, e anzi dello stesso pregiudizio, più spesso un furbo freddo pretesto per esazioni miliardarie, nonché i casi di bambini scomparsi poi riapparsi. In più punti le testimonianze accusatorie a Trento sono dette inverosimili, oltre che estorte. L’errore è semmai, se lo è, lo “stile Ginzburg” che Toaff adotta, della ricostituzione attraverso la rappresentazione, in uso peraltro nella buona storiografia da sempre, da Tucidide a Quinet. O questo schema interpretativo, che Ginzburg ribadisce nella sua ultima raccolta, “Il filo e le tracce. Vero, falso, finto”, è solo delle culture morte? La creazione di un quadro vivo, vivace, non si attaglia forse a vicende ancora aperte. Ma nella documentazione le pezze d’appoggio sono tante, soprattutto per quanto concerne la letteratura in ebraico, questo anche i suoi terribili critici dovrebbero riconoscerlo a Toaff.
Adriano Prosperi, “Repubblica” 10 febbraio 2007, parte dal presupposto che Toaff provi gli infanticidi, o almeno un infanticidio, per le “Pasque di sangue”. Colpa specifica poi gli fa di annunciare “trionfante di aver trovato “precisi riscontri”” alla testimonianza accusatoria a Trento di un ebreo convertito, che sarebbe stato a suo dire testimone di un infanticidio nel 1740 a Landshut. Mentre Toaff dice: “Sia l’infanticidio di Landshut che il successivo massacro degli ebrei trovano precisi riscontri nei documenti dell’epoca”. Questo testimone, dice Prosperi, era già in carcere per altro reato, cosa che Toaff omette di dire. Ma Toaff lo dice. La sua testimonianza, dice Toaff, fu “decisiva per mettere in moto la feroce macchina giudiziaria”. No, ci fu dell’altro, e Toaff lo racconta. Così come racconta – è una delle parti gustose del libro – le barricate del vescovo di Trento Hinderbach contro il messo papale che voleva vedere chiaro nel processo. Il rimprovero a Toaff di omissione di quelle che sono parti importanti del libro è segno d’irritazione ma ingiusto. Anche perché il metodo di “Pasque di sangue” ricalca quello che Prosperi e Ginzburg hanno proposto trentacinque anni fa in “Giochi di pazienza. Un seminario sul “Beneficio di Cristo””, dello storico come giocatore d’azzardo.
Di appena tre anni più giovane, Toaff ha voluto pagare un tributo indiretto ai due storici “pisani”, identificandosi nello storico come in uno che vuole escogitare e trovare “qualcosa di veramente nuovo” (“Ci sedevamo a un tavolo da gioco dove le carte erano in parte già state distribuite, e le regole fissate…..”). E questo risponde d’anticipo all’unica critica possibile, sul “dubbio coniugio fra l’antropologia dei riti ebraici qui diffusamente esposta e la storia dei rapporti di potere e dei pogrom”. Confusione che però Toaff non fa: non fa la storia del potere e dei pogrom, ma dei riti ebraici, dei riti del sangue – la storia e non l’antropologia, su testi, documenti e immagini, per la prima volta. Usa “la tecnica della drammatizzazione delle ipotesi”, che Prosperi gli rimprovera, componendo un quadro convincentemente vero, oltre che sapido, dell’ebraismo ashkenazita (tedesco) a cavaliere delle Alpi nel tardo medio Evo, che gli ebrei di Roma rigettò sotto il Po, ma non va oltre. Toaff attua la deontologia del buon storico, “essere obiettivo, imparziale, ricercatore della verità”, nel suo senso negativo, “non falsificare i dati della ricerca”, e in quello positivo, avere “una disponibilità illimitata nei confronti di tutto ciò che (ne) può emergere”, e pazienza se questa è la metodologia di Ginzburg-Prosperi. Toaff non va alle estreme conseguenze che Gizburg-Prosperi auspicavano nei primi anni Settanta, perché non cerca di trovare niente. Né usa con le fonti il discutibile metodo di “Giochi di pazienza” – “saremo gli ultimi a scandalizzarci” se gli altri studiosi hanno avuto in materia “presupposti extrascientifici”, giacché “essi li hanno portati a risultati di fatto con cui chiunque deve fare i conti”. Fa uso soltanto di un linguaggio scorrevole, per una storia come narrazione o rappresentazione, e questo forse lo ha perduto, non avendo né Prosperi né Ginzburg gradito l’omaggio (è anche vero che i “Giochi di pazienza”, pubblicato nel 1975, condannavano spiritosamente l’uso delle fonti processuali e delle controversie teologali: “Sarebbe come fare la storia dei gruppi extraparlamentari di sinistra sulla base delle relazioni del procuratore Sossi”, mentre ora si sa che tanto sbagliato non sarebbe stato).
Detto tutto, e forse involontariamente, “Pasque di sangue” segna la fine, o comunque la debolezza, del paradigma indiziario sul quale è stato costruito, per quanto appassionante. Oggetto non a caso della veemente critica di Ginzburg, il padre del paradigma. Ci sono – ci vogliono – interdizioni. Uno è certamente la misura, cardine di ogni giudizio, e quindi anche della storia. Un altro è la completezza – terminati tutti relativi, certo. Vale a questo punto tornate alla formulazione originaria dell’“indizio”, quella dell’“Introduzione all'analisi strutturale dei racconti” di Roland Barthes, del 1966 (tradotta in AA.VV., “L’analisi del racconto”, 1969), come uno dei due componenti di ogni storia, lo scarto, la differenza, l’altro essendo la “funzione”, o rapporto simpatetico tra i segmenti lineari del racconto. L’indizio è efficace artificio narrativo, di storie quindi compiute. La completezza è un altro prerequisito. Anche a costo di fuoriuscire dal “quadro”. E questo a Toaff, ha ragione lui, nessuno la può negare, la conoscenza delle fonti.
La storia è dei padroni?
Le critiche sono state numerose, oltre che scandalizzate. Ma tutte perpetuando paradossalmente l’idea che la storia è quella dei padroni-vincitori. Riccardo di Segni, ora rabbino capo di Roma, rimprovera a Toaff l’uso della “qualifica di “fondamentalisti” assolutamente anacronistica”, che per la verità Toaff circoscrive a gruppi limitati di fanatici che “avevano aggirato o sostituito le norme rituali della halakhah ebraica”, per la forza della tradizione popolare o per consuetudini “impregnate di elementi magici e alchemici”. Gli rimprovera anche la scarsa scientificità, che sarebbe attestata dalla mancata pubblicazione del lavoro via via che si sviluppava in riviste scientifiche. Mentre Toaff attesta che la sua ricerca ha discusso per sei anni in seminari alla sua università Bar-Ilan a Tel Aviv. Che è un’università religiosa benché laica – ha il compito statutario di “sintetizzare l’antico e il moderno, il sacro e il materiale, lo spirituale e lo scientifico” (fondata da un rabbino americano nel 1955, ha il nome di un rabbino berlinese sionista, Meir Bar-Ilan, che lo studio accademico voleva esteso alla Torah, ed è frequentata da ebrei credenti - Yigal Amir, l’assassino di Itzak Rabin, aveva da due anni ripreso gli studi a Bar-Ilan, di legge e ebraismo).
“Il più clamoroso errore logico compiuto dall’autore” è per Alessandro Barbero, “Tuttolibri” 3 marzo, l’affermazione “d’aver trovato “riscontri puntuali” alla confessione degli ebrei imputati a Trento nel 1475”. Ma questo non è vero: Toaff non porta riscontri sul fatto specifico, di cui dà al contrario una rappresentazione derisoria, rileva rispondenze nell’ebraismo tedesco di alcune pratiche rituali descritte da testimoni al processo. Curiosa la presentazione che il quotidiano israeliano “Haaretz” fa, con ben due giornalisti, del caso Toaff discusso alla Knesset: “Nel suo libro “Pasque di sangue”… Toaff fa il caso del processo per omicidio rituale di Trento nel 1475, insinuando che alcuni ebrei effettivamente uccisero il bambino, Simone, al centro dell’affaire. Ora specifica che gli ebrei di Trento non uccisero Simone, né nessun altro bambino cristiano, per scopi rituali”. David Bidussa sul “Riformista” del 24 febbraio chiede a Toaff: “Rovesciando le righe finali del suo testo, io non mi aspetto che si redima di fronte alla figura del Beato Simonino e si penta…”. Ma le ultime righe di Toaff sono apertamente irridenti verso il processo e il post-processo. Più sobria Anna Foa, che ha aperto le critiche, ma limitandosi a rimproverare a Toaff una “personale rilettura” delle fonti, e la mancanza di sensibilità politica sull’argomento.
Foa dirà poi di aver criticato il lancio del libro. Che però non ha avuto speciale pubblicità, non più delle anticipazioni che si fanno dei libri con qualche giornale. Nell’occasione col “Corriere della sera”, che ha titolato “La sconcertante rivelazione di Ariel Toaff: il mito dei sacrifici umani non è solo una menzogna antisemita - Quelle Pasque di Sangue - Il fondamentalismo ebraico nelle tenebre del Medioevo”, la presentazione di Sergio Luzzatto, piuttosto anodina. Le critiche sono dunque al “Corriere della sera”? Non è possibile, ma probabile sì. Il 6 febbraio Luzzatto presenta il libro, l’8 e il 10 febbraio Foa e Prosperi lo stroncano su “Repubblica”, il libro è in vendita dal 12 febbraio, il 16 febbraio è ritirato. Toaff destina i diritti sulle tremila copie vendute all’Anti-Defamation League.Alcune critiche sono apertamente bizzarre. Prosperi e Ginzburg contestano la serietà della Biblioteca di storia del Mulino. L’1 maggio Prosperi torna sull’argomento, a proposito del libro lampo che Franco Cardini pubblica sul caso: non gli piacciono gli storici che scrivono per i giornali. Adriano Prosperi dunque scrive su un giornale che scrivere per un giornale non è scrivere… Anzi, fa di più: su un giornale insolentisce come autore in cerca di scoop uno storico, Toaff, che non scrive per i giornali. La polemica insomma è subito partita come sempre suole per la tangente – Cardini, che in argomento aveva esordito entusiasta, “chapeau per Ariel Toaff”, “Avvenire” 7 febbraio, produce in poche settimane un libro per pentirsi, “Una riconsiderazione”, introducendo il politicamente corretto nella storiografia: “Ci sono cose di cui è opportuno tacere”.
Gli ashkenaziti, un'altra storia
L’originalità del libro è di situare le Pasque di sangue e la relativa paranoia in ambito germanico, anche “di qua delle Alpi”, tra le colonie ebraiche di origine tedesca che a lungo si mantennero tedescofone. C’era un commercio transalpino di sangue coagulato, indiscutibile (il “sangue giovane” è pregiato negli elettuari tedeschi, eccetera). Il culto del sangue era forte in Germania, tra i cristiani e tra gli ebrei (Isacco, la lebbra del faraone, la circoncisione, che comincia con l’esodo dall’Egitto, la prima piaga d’Egitto…), malgrado le interdizioni bibliche. Gli ashkenaziti erano anticristiani con la stessa virulenza con cui Lutero sarebbe stato antisemita. Questo argomento può essere discutibile, ma di questo si dovrebbe parlare, non accusare Toaff di oscenità.
Ginzburg attribuisce a Toaff, cui toglie la qualifica di studioso, così come a Sergio Luzzatto, ogni demerito, dall’antisemitismo della “Civiltà cattolica” nel 1914 all’abuso della sua autorevolezza, sua di Ginzburg. Da storico, l’accusa al “libro pessimo” è che “l’esistenza di eventi specifici viene provata sulla base di un contesto culturale: un’assurdità”. Ma Toaff non dice che l’accusa a Trento fu provata. Al contrario ricostituisce un contesto culturale di cui s’era persa la memoria, nel quale gli accusati a Trento vivevano e operavano: l’odio reciproco tra ebrei e cristiani in terra tedesca. In un’epoca in cui si faceva commercio di sangue, anche liofilizzato, non necessariamente umano, o non di morti assassinati. Le accuse d’infanticidio rituale e di profanazione dell’ostia erano tipicamente tedesche. È in Germania che la circoncisione e la crocefissione sono rappresentate come violenze semitiche, alla stregua dell’omicidio rituale. Sulla traccia che Isaia Sonne ha individuato nel 1954 in “Da Paolo IV a Pio V”: Yoseph Ha-Cohen (Giuseppe Sacerdoti), uno dei più noti cronisti ebrei del Cinquecento, che molto scrisse contro le false accuse d’infanticidio, “generalmente attribuisce alla deplorevole condotta degli ashkenaziti e alla loro mancanza di scrupoli il deterioramento dei rapporti delle comunità ebraiche in Italia con la società cristiana”, al punto che “gli avvenimenti e le circostanze in cui la responsabilità degli ashkenaziti era accertata… Erano sottaciuti dagli storici ebrei nel timore che portassero acqua al mulino degli antisemiti”.
Anche per questo gli ashkenaziti a lungo si mantennero divisi dagli ebrei che salivano da Roma, oltre che per lingua, riti e pratiche commerciali, quando non “fratelli coltelli”: ci sono più scambi, fra Tre e Cinquecento, tra gli ebrei pedemontani, tedescofoni, ashkernaziti, e gli ebrei di Germania che non tra gli stessi e gli ebrei al di qua del Reno. A metà Quattrocento gli ebrei romani sono praticamente espulsi dalle città venete, più spesso a opera dei concorrenti ashkenaziti. La Comunità tedesca separata dalle altre è ancora nella classica memoria di Giorgio Bassani, “Il giardino dei Finzi-Contini” - la sinagoga italiana è al secondo piano, al piano nobile c’è quella tedesca, “così diversa nella sua severa accolta, quasi luterana, di lobbie borghesi”. In una pluralità distinta di comunioni, certo: “Le varie cosiddette Nazioni nelle quali era divisa nel Cinque e Seicento la Comunità veneziana, la Nazione levantina, la ponentina, la tedesca, l’italiana”, e all’interno della ponentina c’erano almeno quattro distinti riti e tempi, spagnolo, portoghese, catalano e provenzale. La superbia dei tedeschi avrà pure avuto qualche fondamento (al processo di Trento Anna da Montagnana, donna di casa, sa leggere l’ebraico e tradurlo), ma nondimeno tale è - il protagonista del racconto si fa anche raccontare dal professor Finzi-Contini “l’ideale dell’ottimo storico”, in questi termini: “Il raggiungimento della verità, senza però mai smarrire per istrada il senso dell’opportunità e della giustizia”.
La colpa è di Toaff
La colpa di Toaff è in ciò che egli non dice ma rappresenta, documentandolo: che l’odio fra ebrei e cristiani era, in certe comunità, reciproco. È cioè il cuore del libro, della ricerca. Quanto reciprocamente feroce la rappresentazione non può dire. La storia documenta unicamente persecuzioni di ebrei a opera di cristiani, e in questo senso è scritta, incontestata. Ma se l’odio e il disprezzo sono forti anche nei perseguitati, perché non dirlo? Lo storico cerca la storia. Prima e al di là della colpa, che certo è cristiana. Lo storico non si limita a dire che i cristiani sono malvagi, ce ne dice anche i motivi e le circostanze. Che non è un giudizio, con assoluzioni e condanne, non in senso giuridico. Le prove, dice Aristotele, sono il “nucleo essenziale” dello storico. Ma la storiografia nella “Retorica” di Aristotele, che mostra di condividere, Ginzburg formula in “Rapporti di forza”, p.62, “come segue:
a) la storia umana può essere ricostruita sulla base di tracce, indizi, sēmeia;b) tali ricostruzioni implicano tacitamente una serie di connessioni naturali e necessarie (tekmēria) che hanno carattere di certezza: Fino a prova contraria un essere umano non può vivere duecento anni, non può trovarsi contemporaneamente in due posti diversi, etc.;
c) al di fuori di queste connessioni naturali gli storici si muovono nell’ambito del verosimile (eikos), talvolta dell’estremamente verosimile, mai del certo – anche se nei loro scritti la distinzione tra “estremamente verosimile” e “certo” tende a sfumare”.
Toaff, malgrado lo stile, si mantiene sobrio. Sa forse che c’è la prova di Lutero alla radice della odierna cultura del sospetto, di Marx, Nietzsche, Freud, e del paradigma indiziario: non so se gli ebrei uccidono i bambini e avvelenano le acque, però so che se lo potessero fare non gliene mancherebbe la volontà. Toaff si mantiene su questo con fermezza saldo: bisognerebbe prima conoscere tutti gli ebrei, uno per uno. Fare spazio cioè anche al non sospetto, altrimenti la prova è un sottoprodotto kantiano. “Pasque di sangue” è un quadro della presenza ebraica in Italia, attiva, non marginale, diversificata. Uno dei più solidi libri di storia, di storia d’insieme, di un fenomeno legato al suo tempo, Toaff è efficace creatore del contesto. Un libro documentato e ben organizzato, e quindi saggio. Cosa gli manca? Una minima cura redazionale, quasi nulla: tre, forse quattro, aggettivi da calibrare, o al limite eliminare - e a p. 112 “la Domenica delle Palme, mercoledì 22 marzo”. C’è anche lo “scambio amoroso con le fonti” che Natalie Zemon Davis rileva fra gli storici. Ma con effetti positivi più che negativi, poiché Toaff sa far rivivere roba sepolta da tempo. Ariel Toaff è socio onoraro dell’Aisg, l’Associazione Italiana per lo Studio del Giudaismo. Ma meno distaccato di Heine che scrive “Il rabbino di Bacharach”, il rabbino che si allontana dalla sua comunità quando essa cade sotto l’accusa del sangue. Delle critiche il meno che si può dire è che hanno perpetrato l’assassinio di un libro. Non rituale, volontario. Per un movente che non sappiamo, e forse non c’è – la stampa talvolta si annoda su stessa, l’opinione pubblica: l’abominio è pretestuoso, del tutto, e sa di interdetto e non di condanna argomentata, malgrado l’autorevolezza dei giudici.
Che dirne? Poiché è della vicenda editoriale che si è discusso e non del merito della ricerca – non del merito della ricerca – la verità è l’incredibile perdurante assunto, tanto più incredibile in questa epoca di contestazione globale dell’Europa, nella globalizzazione e sotto la sfida dell’integralismo religioso, che l’Europa si riduca al papa, anzi al papa e all’inquisizione, cinquecento anni di storia moderna, quando non i suoi due millenni abbondanti di vita. Assurdo più che incredibile assunto dei modernisti, che limitano la loro attività all’argomento più becero della controversistica protestante, poi massonica, ringhiosi cani da guardia di una “verità” che dovrebbero invece combattere. Un omaggio diabolico al papa, che altro dire?, ma che c’entrano gli storici? O è la miseria della storia, e della stessa tolleranza, quale la storia la registra: la ferocia è purtroppo connaturata all’intolleranza dei tolleranti, tanto sono pieni di sé.