Solo l’elenco fa impressione, per la diffusione degli sportelli in Italia e per i marchi illustri che vi sono confluiti, delle tre banche superstiti nel ciclone di fusioni dell’anno appena chiuso. A Intesa fanno capo il San Paolo di Torino, il Banco di Napoli, l’Imi, il Mediocredito, Banca Fideuram, e una dozzina di grandi casse di risparmio, comprese le maggiori, la Cariplo, e le casse di Bologna, Venezia, Figuli, Romagna, Trento e Bolzano. Nel Gruppo Unicredit ci sono ora la Banca di Roma, il Banco di Sicilia, le casse di risparmio dell’altra metà del Triveneto e di Torino, e le banche storiche di Genova e Bologna. Mps-AntonVeneta fa meno impressione, ma ha pur sempre, coi suoi tremila sportelli, la metà di quelli di Intesa e di Unicredit, anche se non compete per capitalizzazione e patrimonio.
È un ciclo che la Banca d’Italia allegra di Mario Draghi ha consentito e perfino promosso. Ma senza alcun beneficio per gli utenti. E nell’incertezza più totale, che nessuno si è curato di fugare, dal punto di vista organizzativo, dei costi, dell’efficienza. A livello politico è un trionfo, benché non dichiarabile, per Prodi: Intesa-San Paolo e Unicredit-Capitalia si sono fatte sotto la sua ala protettrice, e così pure Mps-AntonVeneta. Avendo consolidato lo strapotere della finanza confessionale, Palazzo Chigi si è consentito il patrocinio liberale, qualcuno dice la promozione, della fusione tra la “banca dei compagni” e la “banca del santo” – l’analoga operazione tentata due anni fa da Unipol con Bnl ha portato al carcere il vertice di Unipol, alla gogna mediatica Fassino e D’Alema, e alle dimissioni con incriminazione del non allegro governatore Fazio.
mercoledì 2 gennaio 2008
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