Ha voluto parlare fuori dal mondo Adriano Sofri con Fabio Fazio sabato sera a “Che tempo che fa”. E tuttavia è sempre più la figura tragica dell’epoca. Più di Craxi, che in qualche modo se l’era cercata. Dell’epoca dei processi politici milanesi – se non furono un golpe, di Scalfaro e degli scarti del Msi e del Pci. Anche nel suo conformismo odierno di maniera.
Anche somaticamente, nel sorriso assente, nel tono monocorde, quel colloquio con Fazio sembrava uscito da “1984”. I processi e la condanna di Sofri sono parte dell’Indicibile della storia d’Italia. Come le bombe, migliaia di bombe impunite a partire da piazza Fontana. Una storia che non si può raccontare, anche se alcuni testimoni oculari sono bene in vita, Cossiga, Andreotti, Scalfaro, e gli scheletri del Pci, o forse per questo. Sofri ne è la figura tragica anche perché nel processo e dopo si è affidato ai suoi persecutori.
Un guizzo dell’antica ingenuità ha avuto solo sulla trappola di rito. È prassi dire che “quelli del Sessantotto” sono diventati direttori di giornali, che non è affatto vero, ma Sofri non si è sottratto. Alla velata accusa di carrierismo. Il Sessantotto ha fatto la felicità di tutti quelli della sua età, compresi gli scalpellini e i calzolai, se ce ne sono ancora. Che tutti però si pongono adesso fuori dal mondo, anche se non hanno avuto processi e condanne, per il motivo che non sono mai entrati nelle istituzioni, ne sono stati anzi tenuti fuori, non c’è un leader politico o un ministro che abbia potuto farsi strada venendo da quell’esperienza.
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