mercoledì 2 gennaio 2008

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (12)

Giuseppe Leuzzi 

Di Sciascia dice Matteo Collura, “Il maestro di Regalpetra”, 174: “Il sentire siciliano ne affilerà lo scetticismo”. Marc Ambroise, che ne collaziona le opere: “La sua è l’eresia dell’eresia”. Insomma il pessimismo. Del pessimismo, “di cui tanto si parla a mio carico”, diceva lo stesso Sciascia, “che colpa ha lo specchio, diceva Gogol, se i nostri visi sono storti? Ma anche lui è causa della sua stessa febbre”. Sciascia non era pessimista: lui riteneva che la mafia si potesse sconfiggere – che la Sicilia potesse e volesse sconfiggere la mafia. Fatalista è il Gattopardo. Sciascia criticava la politica nei fatti: il fascismo, l’occupazione americana, la Dc regionale (ma non Reina, Mattarella figli, Nicolosi) e nazionale, anche il Pci. Fece da deputato un buon lavoro, pragmatico, efficace. La colpa di Sciascia può essere un’altra: la sua giustizia – “Il Contesto” – è metafisica. La giustizia sono i giudici, la categoria più corrotta dell’Italia corrotta. 
 La “linea della palma” che sale e occupa l’Italia, e anzi il mondo, è in buona parte opera di Sciascia. La chiave la dà egli stesso a Marcelle Padovani, nel libro dallo stesso titolo, 1979: “Scrivo su di me, per me e talvolta contro di me. Prendiamo ad esempio questa realtà siciliana nella quale vivo: un buon numero dei suoi componenti io li disapprovo e li condanno, ma li vedo con dolore e “dal di dentro”; il mio “essere siciliano” soffre indicibilmente del gioco dei massacro che perseguo”. Questo è perfetto, è l’attrattiva di Sciascia, ed è detto perfettamente. Ma poi Sciascia continua: “Quando denuncio la mafia, nello stesso tempo soffro perché in me, come in qualsiasi siciliano, continuano a essere presenti e vitali i residui del sentire mafioso”. E questo è logicamente assurdo, oltre che ingiusto – il sentire siciliano è sentire mafioso? 
Ci si può chiedere in che mondo Sciascia – lo scrittore siciliano – viva. O il suo pessimismo è di maniera, dell’Autore che gioca alla decadenza – gioca, perché di suo è fertile, creativo, operoso. Da “traggediatore” siciliano, che col disprezzo del mondo se ne fa padrone? Ma Sciascia non si diverte. Potrebbe invece essere semplicemente il provinciale, Sciascia sta bene a Parigi, benissimo, che la sua insoddisfatta condizione proietta sul mondo. Ma questo è la questione Sciascia, della lettura dell’opera e dello scrittore, non della mafia. 
Condivide però anch’egli una concezione della mafia sbagliata. Per tre motivi. 1) La mafia non ha nulla a che vedere con la giustizia. Né la mafia antica né quella nuova. La mafia è legata all’interesse, quindi alla sopraffazione e alla violenza. In tutt’e tre le sue espressioni, la mafia propriamente detta, la ‘ndrangheta e la camorra. In Italia e all’estero. Non c’è lealtà nella mafia se non c’è la convenienza, né c’è amicizia o riconoscimento del bene fatto. I mafiosi hanno sempre tradito senza angosce per interesse – anche prima della legge che premia i pentiti. La vecchia ‘ndrangheta, fino agli anni 1950, si dava un cerimoniale legato alla giustizia, ma era solo violenta, soprattutto al suo interno. 2) Non c’è omertà, le società locali non sono legate alla mafia. Nemmeno le parentele, se non al livello infimo della società. C’è una denuncia continua, febbrile, perfino paranoica, dei soprusi, un tentativo costante di venirne a capo senza rimetterci l’anima. Non c’è molta attesa nei carabinieri e nei giudici, a parte le denunce d’obbligo, ma non si vede il perché: l’omertà consente a giudici e carabinieri in Calabria, Sicilia e Campania di non far nulla in attesa che il denunciante dimostri anzitutto di non essere mafioso. Chiunque ne ha avuto anche minima esperienza, per un furto d’auto o un “dispetto”, lo sa. 3) La mafia non è un fatto culturale, è un fenomeno criminale. Non c’è in tutta la Sicilia, in tutta la Calabria o in tutto il napoletano. 
La Sicilia ha una grande cultura urbana che ne rifugge. Metà dell’isola ne è stata esente fino agli anni Cinquanta. Ha un vasto ceto imprenditoriale e forti capitali che ne vanno immuni. Ha zone industriali importanti, dell’informatica, dell’auto, della petrolchimica, nonché dell’agricoltura (agrumi, primizie, vino) e dell’agroindustria, e del turismo che ne sono esenti. In Campania se si esce dal triangolo Napoli-Baia-Caserta non c’è alcuna cultura dell’illegalità perché non c’è l’illegalità: a Benevento, in Irpinia, e nel vastissimo salernitano, da Positano a Paestum, al Cilento e a Sapri – ma già il Vesuvio respira, e la costiera sorrentina. In Calabria la mafia non c’era fino agli anni Cinquanta: c’era una onorata società che sbrigava piccoli traffici, guardianie, contrabbando, biglietti falsi, non entrava negli affari, negli appalti, nelle compravendite, nelle attività produttive. Dopo quarant’anni di occupazione delle terre, contributi comunitari, appalti, tangenti, sequestri di persona, delitti innumerevoli contro la proprietà, tutti impuniti, la ‘ndrangheta controlla in Calabria fino ai pranzi per le prime comunioni. Ma non è nata con la Calabria e i calabresi, è nata con l’impunità. Lo stesso in Puglia: la trasformazione dei contrabbandieri locali in “sacra corona unita” o organizzazioni mafiose è degli anni 1970.
Chi conosce la mafia di prima persona queste cose le sa. Un quarto falso pilastro, che sta crollando perché interrotto negli anni 1990 a metà della fabbricazione, ne conferma comunque la natura non ineluttabile: la terribilità della mafia (la mafia più potente dello stato, la mafia più radicata della coscienza civile, l’imprendibilità dei latitanti, il riciclaggio imprendibile). Tra gli assassini di dalla Chiesa e di Falcone e Borsellino, dieci anni, questo pilastro è stato costruito alacremente, ma ora ognuno sa che i latitanti, se ricercati, si prendono. Le cupole si dissolvono, le famiglie si frantumano, la delazione è generalizzata. Non si elimina il delitto, ma questo non c’entra con le tre, o quattro, presunte proprietà della mafia, il delitto sempre si ripropone. Anche in forme mafiose. 
La sociologia fatica a recepire la realtà perché lavora su una concrezione di false verità difficile da scardinare. La falsa mafia è in parte dovuta a elaborazione autonoma di “traggediatori” siciliani, con aggiunte napoletane, di finta sentimentalità. In parte maggiore è cultura da colonizzati: la mafia è stata - ed è – soprammessa dall’Italia unita. In qualche caso da siciliani espatriati, che hanno mediato e fatto proprie troppe e non disinteressate semplificazioni. Questa falsa mafia è inattaccabile perché è compattata a tutti i livelli, dalla banca, la chiesa, la giustizia, agli articoli di giornale: tutto è mafia, anche l’abuso edilizio, o il falso invalido. Non c’è paragone tra gli abusi delle riviere liguri, o adriatiche, e quelli della Sicilia, ma un articolo sullo scempio edilizio in Italia partirà sempre da Agrigento e dalla Valle dei Templi – che è invece il parco archeologico meglio tenuto dell’Europa, e probabilmente del mondo, oltre che esageratamente affascinante. Sciascia, purtroppo, ci credeva: non di avere in quanto siciliano delle colpe, ma di essere il più colpevole di tutti.

Sudismi\sadismi
Francesco Merlo, “La Repubblica” 30 dicembre 2007: “Forse Bruno Contrada non andava processato, ma sicuramente non può essere graziato…. Non si graziano i mafiosi come non si graziano i vibrioni del colera o i batteri della meningite. Contrada non andava processato perché sino alla generazione dei Falcone e dei Borsellino lo Stato in Sicilia fu storia di colluzioni “alla Contrada”, di servitori di uno Stato colluso”. Da manuale della specialissima intelligenza siciliana: eloquente, giusta, generosa, apodittica. E sempre irrealistica. Contrada è – era – un commissario di polizia, ed è quindi vero che agiva all’interno di un sistema (aveva superiori, cioè, inferiori, magistrati a cui riferire e da cui essere indirizzato, eccetera), ma la mafia è altro. Lo Stato invece siamo noi, non è di Lor Signori, siano essi magistrati piuttosto che politici, e per quanto integerrimi si vogliano, e non è quindi mai colluso ma semmai offeso. Contrada aveva visto giusto – la mafia sono i corleonesi – e i suoi persecutori hanno colpe ben più gravi da farsi perdonare. 

Tutto finisce. L’Europa immortale e imperiale ha subito un brusco tracollo con il crollo del comunismo, l’ultimo suo feticcio. Lo stesso Gesù Cristo, del resto, è figlio di Dio da poco tempo, dal concilio di Nicea del 325, che l’imperatore Costantino volle per domiciliare la nuova religione a Roma. Il cristianesimo potrebbe lasciare Roma, o perdere la divinità. Il Sud non riuscirà mai a liberarsi del Sud? 

Come fu che il latte di mucca, così inaffidabile, sostituì il buon latte di capra? 

Messina ieri e oggi
La mostra di Antonello nel 1953. Creata dal buonissimo architetto Carlo Scarpa, che seppe farne emergere lo splendore, con tendine alle finestre di seta azzurra dalla parte della luce e di seta rosa dalla parte dell’ombra. Vincendo l’ignoranza della critica italiana piccola e grande, che ancora non sa chi è Antonello. Che visse quarantanove anni appena, e lascia quarantanove capolavori. Apprezzati a Dresda e a San Diego di California, ma non, non ancora, a Milano. Ora Messina ha sempre piazza Cairoli, viale san Martino, ma popolate modestamente di maghrebini, e l’Università cinquecentenaria, ma dislocata in anonime periferie, e si deve periodicamente giustificare: magistrati in carriera ogni paio di mesi la fanno diventare mafiosa, assassina, ladra, sostenuti da professori in carriera. Della stessa Messina, delle università lungo l’autostrada. Mentre una volta, ancora negli anni 1950, vi insegnavano onorati. sulla scia di Giovanni Pascoli e di Alessandro Passerin d'Entrèves, Galvano Della Volpe e Giacomo Debenedetti, Santo Mazzarino, Giorgio Pasquali, Marialuisa Spaziani, Lucio Gambi. 
La storia può andare a rovescio. Messina ha anche tanto Caravaggio, volendolo. 

Deaglio, Bocca, Bobbio, sempre i piemontesi maledicono la Sicilia mentre se la fottono. Che si lascia fare, riconoscente.

Tutto naturalmente si fa per il bene della Sicilia, per la democrazia, per la legge, per il progresso e l’uguaglianza, per il benessere per tutti, e per i buoni propositi. Ma è una strana condanna questa che da un paio di secoli soggioga la Sicilia, e con essa tutto il Sud. Molto mafiosa. Anche il compiacimento isolano per la magnificazione della mafia è sospetto, i siciliani non sono stupidi – politicamente s’intende.

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