Giuseppe Leuzzi
Sudismi\sadismi. A volte la verità è semplice, e a Napoli è addirittura strafottente. Compresa la vergogna delle Autorità: la Procura della Repubblica, il duetto Antonio-Rosetta, che hanno rodato gli amori assassini del Partito Democratico, la televisione e i giornali, comprese le opulente cronache locali. “In questa provincia il 39 per cento della popolazione ha precedenti penali”, dice il capo della Mobile di Napoli, Vittorio Pisani, al “Sole 24 Ore” del 12 gennaio. È solo una delle cose note segrete che l’illeggibile giornale della Confindustria sta mettendo in chiaro. I quartieri camorristici sono puliti. Si è speso un miliardo in dieci anni per niente. I treni spazzatura sono costati 68 milioni. Si pagano stipendi d‘oro e terreni d’oro, e i rifiuti si bagnano con l’acqua per farli pesare di più, a beneficio dei trasportatori, anche se bagnati non bruciano nell’inceneritore.
Ferruccio de Bortoli, che ha preso la direzione del “Sole” in alternativa alla pensione, non più gradito al “Corriere della sera”, si diverte con due inviati veri a dire tutto quello che i grandi giornali, le grandi televisioni, e le grandi Procure della Repubblica, con diecine e centinaia di redattori, corrispondenti, inviati, addetti e consulenti, non dicono su Napoli e Caserta. Tutti i dati degli inviati del “Sole” sono pubblici e anzi ufficiali. La spazzatura è una storia di vergogne.
Manca al “Sole”, ma si sa, che i miliardi spesi inutilmente sono uno e mezzo e forse due, perché nessuno fuori di Napoli-Caserta è stato pagato, né le ferrovie che trasportano i rifiuti né gli appaltatori che li smaltiscono né i Comuni che generosamente se li sono accollati. Alcuni dei quali sono anzi sotto processo per abuso d’ufficio, appalti fuori gara, eccetera, la giustizia sa essere terribile. A Napoli no, ma solo per la spazzatura, la spazzatura a Napoli non esiste - contro Moggi invece, per dire, schiera i migliori apparati dei carabinieri, i migliori decrittatori e consulenti d’informatica, un migliaio di pagliette, in rappresentanza di duecento, o trecento, parti civili, e i migliori cronisti, i più informati, di prima mano, rapidi, fidati.
Napoli si conferma la capitale d’Italia, morale e del diritto. Le statistiche della macchina operativa della giustizia, che il “Corriere” è riuscito a procurarsi e a “leggere” nel numero di fine 2007, parlano chiaro (i dati sono del 2006): Napoli, con un milione di residenti, ha 1.029 magistrati, 118 giudici onorari, e 692 giudici di pace. Molti più di Milano, che ha 1,3 milioni di residenti, e di Roma, che registra 2,8 milioni di abitanti. Roma ha qualche giudice onorario in più, 144 contro i 118 di Napoli, ma la metà dei giudici di pace, 370 contro 692, e un numero inferiore di magistrati, solo 953. Milano viene dietro in tutte le categorie, abbondantemente: 865 magistrati, 66 giudici onorari e 372 di pace. Solo come amministrativi Roma supera Napoli, ma di poco: 4.993 contro 4.791 (Milano arranca con 3.736). In rapporto alla popolazione, Napoli ha 18 giudici e mezzo ogni diecimila persone, Milano uno, Roma mezzo, un po’ meno di mezzo. È un raffronto grossolano, ma il trionfo del pagliettismo è indubbio.
Il tono fa impressione, tra l’acredine e la minaccia, nella levata lombarda di scudi su Malpensa, il genere che il “Corriere” codifica in “Milano sarà costretta a fare da sé”, il tono è sempre risorgimentale. Ma questo è quello che tutta Italia spera che Milano per una volta faccia. Visto in sezione, l’affare Malpensa è semplice: uno scalo che le faziosità municipali non hanno consentito di infrastrutturare, e a cui Linate, l’altro scalo milanese, fa una concorrenza imbattibile. Risultato: nove voli intercontinentali su dieci del Nord Italia si fanno, via Linate, Bergamo, Bologna, Torino, Venezia, da altri grandi aeroporti europei. Milano tuttavia, pur viaggiando operosamente tranquilla via Linate e Bergamo, non resiste alla tentazione di far buttare altri miliardi - “le toccano”, questo è il sentire di Milano rispetto alla cosa pubblica.
Milano ha accollato alla Repubblica una lunga serie di bufale, all’insegna volta a volta dell’“italianità”, del “lombardismo”, e di “quel che è bene per Milano è bene per la patria”. La più grossa, Montedison, è costata all’Eni, cioè allo Stato, più o meno 25 mila miliardi in venticinque anni - dopodichè Milano stessa ha annientato con Montedison una classe politica e le istituzioni della Repubblica, buttando l’Italia nel caos: tre milioni di licenziamenti, il mercato nero del lavoro istituzionalizzato, la corruzione impunita. Ma anche Malpensa non è bufala da poco. Venticinque anni per realizzare lo scalo intercontinentale (la prima idea di Nordio, cioè di Alitalia, è del 1979), a un costo di cinquemila miliardi, più o meno per niente, sei diversi progetti nei tre anni cruciali del lancio, che hanno portato alla fuga di Klm, senza contare l’inabissamento di Az, che ora si vende gratis.
Sempre Milano si scandalizza. Ma è dubbio che Milano esista.
La borghesia italiana si nega: non si è mai riconosciuta come potere, per non pagarne gli oneri, non ha posto – non si è poste – delle regole. E Milano, quintessenza di questa borghesia, testa pensante, stomaco ruminante, pie’ veloce, per scappare meglio coi patrimoni di mezza Italia che regolarmente vi scompaiono, si nega doppiamente. Nega di esserlo, di essere questa borghesia infida. E anzi se ne erge periodicamente a giudice (la vera questione morale è la stessa questione morale, della capitale morale d’Italia).
Milano è Ferravilla, che a duello intima all’opponente: “Sta’ fermo, altrimenti non ti posso infilzare”.
Il vice-capo dell’antimafia, Contrada, burocrate isolato, Calogero Mannino, l’unico Dc che non c’entri, l’onorevole Andreotti quando decreta il 41 bis e non prima, il generale Mori e il capitano “Ultimo” che hanno preso Riina, e perfino Caselli, il procuratore capo del dopo Falcone e Borsellino: tutti sono andati sotto accusa a Palermo per collusione con la mafia. Anzi, con l’eccezione finora di Caselli, sono andati o sono sotto processo. In processi di grande impegno, che hanno distratto le Procure isolane da altri casi che si penserebbero urgenti, per esempio il traffico di vite umane sulle coste meridionali. Nessun giudice è innocente, ma questi non hanno pudore.
Ci vorrebbe molto meno, se non si trattasse della procura di Palermo, per dirla una sceneggiata mafiosa, di cosche in guerra, non cruenta, tra di loro. Talmente mafiosa da mimare la farsa, spensierata cioè, insolente, impunita. E se non fosse che i processi sono veri. E che la procura di Palermo è la giustizia. La giustizia italiana, protetta da un Consiglio superiore, cupola di uomini eletti che il Capo dello Stato presiede. Lo Stato non può fare tutti i processi, bisogna essere comprensivi, deve dedicare uomini, mezzi e risorse a certi processi piuttosto che agli scippi, benché violenti, ai furti, alle protezioni, ai traffici di droga e agli “extracomunitari” morti, benché a centinaia. Anche il divertimento può essere un’occupazione importante, non bisogna per questo dire lo Stato mafioso.
La parabola che non si sarebbe nemmeno fantasticata quindici anni fa è che i mafiosi diventassero dei. Non solo di grandi giornalisti, che magari ci trovano un utile, ma di magistrati e legislatori. Nel “Dio dei mafiosi”, la teologia di Cosa Nostra di cui si celebra il decennale, il magistrato Roberto Scarpinato faceva riferimento alle pratiche religiose e alle filosofie dei mafiosi, pentiti e non.
La pratica non solo si è d’acchito imposta con i pentiti, ma si è estesa a tutta la giurisdizione: dai processi per corruzione alle procedure fallimentari, il pilastro dell’accusa e della parte civile è quasi ovunque il criminale, lo speculatore, il grassatore, il concussore scoperto, il fallito, lo stesso bancarottiere.
Non sono divinità, i mafiosi, per gli sbirri: non si conoscono speciali emozioni di carabinieri e poliziotti nei loro confronti.
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