Scrive Arbasino di Gadda per non scrivere di se stesso – curiosamente sempre da “nipotino”, pur avendo più anni di quanti Gadda ne aveva all’epoca. Anche perché, sempre curiosamente, di Arbasino, il decano a tutti gli effetti dei letterati italiani, nessuno scrive. Ma questa volta in modo più scoperto: è la terza o quarta volta che Arbasino ripropone il suo Gadda. Il testo embrionale è “I nipotini dell’Ingegnere”, 1959-1960, pubblicato allora sul “Verri”, che sarebbero Arbasino stesso, Parise e Pasolini. La prima metà dell’“Ingegnere in blu” è in “Sessanta posizioni”, del gennaio 1971 (Arbasino fa confusione ripresentando i testi a p. 41-42). Ripubblicata in “La Belle Époque per le scuole”, incluso nella riedizione di “Certi romanzi” del 1977. Rimpolpata, di sbieco, con la “Bantessa”, Anna Banti, e “Paragone”, cui molti devono molto, recuperando ottimi articoli evocativi di “Repubblica”.
L’assemblaggio è condito dalla nostalgia degli anni Cinquanta e Sessanta, della società letteraria di quegli anni, in una serie di elenchi rabelaisiani, di soprannomi, bon mots, personaggini. Tutto capitalizzando, le scemate, gli annusamenti, le gaglioffate, da cocktail party di trattoria. Compresi gli incontri con Gadda, che sono stati uno l’anno, forse, e di cui non abbiamo l’altra versione (a p.122 però Arbasino non se ne priva:”Voltato l’angolo del palazzo, diceva mio fratelloMario (anche lui interpellato per le sue abitudini “campagnole”), si toglierà la maschera e ci riderà dietro”). La Roma arbasiniana è a cavaliere della “Dolce vita”, di aneddotica “Involontaria”, da “Noterelle azzurrine” del Novecento, e poundiani “jokes”, per “una cert’aria del tempo andato” che purtroppo non è Gadda. E non è Roma - Arbasino amerebbe ripetere “l’alta conversazione mondana di Firbank e Huxley e Waugh e Connolly”, a Roma?
Gadda è un pretesto. Si può dire una sorta di “padre”, di cui Arbasino è adorante – come Anna Banti e una “madre”. Ma c’è di più, e di meno per l’Ingegnere. Con un unico momento di verità, fuori testo. Nell’ultimo ricovero in ospedale gli amici devoti andavano a turno a leggergli pagine dei “Promessi sposi”. Gadda, racconta Arbasino a Antonella Barina per “il Venerdì di Repubblica”, “ascoltava attento, sdraiato, imobile. Ma aveva uno sguardo spaventato”. Da Manzoni? Dagli amici?
I memorialisti del Gadda privato, che pure è un filone nutrito e quasi un genere, ne fanno una macchietta, cerimonioso, imbranato. Vittima dei colleghi alla Rai e dei giovani, Parise, che gli fa gli scherzi da prete, e Arbasino, che ne provoca la memoria. È un genere che si limita agli ultimi venti anni dell’Ingegnere, di riconoscimento e perfino di successo, ma non più in grado di scuoterne la sfiducia: questo può spiegare la stucchevolezza delle memorie. Ma i suoi critici affettuosi, bisogna dire, lo preferiscono così, “umorista cincischiato”, “eccentrico”, un po’ paranoico. Mentre è uno dei più vispi e vivaci autori del Novecento, in senso fisico, materiale, nei gusti, nelle frequentazioni, nella conversazione che, altrove che in queste birignate, è sempre diretta.
Gadda è uno scrittore realista, ancorato solidamente alla narrazione sociologizzante dei suoi anni formativi: la patria, la guerra, la piccola borghesia declassata, le vicende familiari. Di quando le madri impedivano ai figli di studiare il greco, e invece della letteratura imponevano l’ingegneria – non senza profitto per la letteratura, se Gadda saprà essere scrittore sintetico, essendosi fermato al latino e alla matematica. Il suo linguaggio è una bombarda contro questi minuti condizionamenti, che erano la sua – personale – realtà. Ma una bombarda che movimenta questi minuti eventi invece che sconquassarli. Allo stesso modo, con altro stile, diminutivo, di Palazzeschi. Come osservare le componenti dell’atomo impazzire ma non romperlo. È la piccola tragedia probabilmente dell’uomo, che lo rese alla fine scontroso, non essere uscito da quei limiti – l’appartamento, la badante, i pasti, la lavanderia, il risparmio (sul cinema, i viaggi, le vacanze, gli acquisti, anche di libri), la solitudine – che così fortemente avvertiva. Gadda è corposo, questo lo possono riconoscere anche i suoi critici benevoli. Specie al confronto dei "nipotini", tutti in vario modo bozzettisti - si parla delle opere: Parise della canzonatura, Pasolini del neo realismo, e lo stesso Arbasino, da troppo tempo costretto al deprecato birignao.
Ma solo Gadda se lo dice, nelle lettere: malgrado la fama postuma, Gadda parla ancora da solo di sé, un po' com'è costretto a fare Arbasino in vita. Gadda è realista alla stessa maniera di Arbasino, si potrebbe dire, il social scientist per eccellenza dell’Italia della seconda metà del Novecento, da “Fratelli d’Italia” a “Mekong”, “La caduta dei tiranni”, “Paesaggi italiani con zombi”. Che in vecchiaia però implode nei suoi manierismi, e li impone anche alla realtà rammemorata. Gadda si fa passare per antiquato residuo del piccolo mondo antico di zie e trisavoli mentre era il letterato più sveglio e realistico, ben contemporaneo, per gli interessi linguistici non solo, ma filosofici e politici, e con solide radici nella vita comune, collaboratore dell’“Ambrosiano”, del “Mondo” di Pannunzio e del “Giorno”, dei giornali più moderni e vivaci, uno che va a Firenze quando la letteratura si fa a Firenze, e poi a Roma quando la letteratura si fa a Roma. Su cui molto avrebbero avuto da dire i fiorentini, come Bonsanti, Piero Santi, Pannunzio, che meglio lo conobbero quando non era ancora traumatizzato dal mancato riconoscimento, solo affannato dalla fatica di farsi riconoscere scrittore. Uno che è a suo agio nel libro di Arbasino solo con Franca Valeri.
In alternativa Gadda è un nevrotico. Con più verità, ma non da poco. Arbasino lo fa dire a Bonsanti, che sul “Mondo” nel 1963 scrive: “Chi non conosce sufficientemente Gadda, non sa spesso come interpretare queste sue esibizioni di formalismi; rimane incerto se prenderle sul serio o considerarle invece l’aspetto più attenuato di un’insofferenza totale”. Gadda aveva più di un motivo per la nevrosi. Ma non al punto da vivere fuori della realtà. L’evento letterario che meglio lo inquadra Arbasino lo accenna, è la feroce polemica sul premio Strega del 1952. Che Gadda sperava l’avrebbe incoronato grande scrittore, andava per i sessant’anni, mentre celebrò e impose Moravia. Con una raccolta di racconti non nuovi, quindi fuori dal regolamento. Patrono di Moravia al premio era Pannunzio, giornalista ottimo ma non influente, l’altro console essendo l’improbabile Muscetta, il censore vetero-comunista. In siffatta combinazione ci voleva un miracolo e il Sant’Uffizio lo fece: mise i libri di Moravia all’Indice, per cui non ci fu gara. La reazione di Gadda ai veleni diffusi nell’occasione da Muscetta contro di lui, uomo di Andreotti e del Vaticano!, è ben realista (è il pezzo forte della corrispondenza con Contini, pubblicata nel 1988). Molto più sobria tuttavia e pugnace dell’invadente autogratificazione e l’ipocrisia con cui Moravia rievoca l’episodio nell’intervista biografica con Alain Elkann nel 1990. Di Moravia Gadda aveva tra i primi segnalato “Agostino” sul “Mondo”. Con Moravia poi andrà nel 1960 a presentare Arbasino, “L’Anonimo Lombardo”, al premio Strega.
Una sola cosa interessa a Gadda, nello sfarfallio di scrittori, poeti, osti, trattori, ristoratori, dame, attori, attrici, registi, nel quale Arbasino lo avviluppa, dopo Franca Valeri: l’Hilton, l’albergo. L’idraulica dell’Hilton, i serramenti, gli ascensori, le tubature. Arbasino lo vorrebbe interessato, oltre che ai repertori di sguaiataggini dell’epoca, a genealogie scomponibili per paginate, senza una minima interiezione dello stesso Gadda. È lecito presumerlo oberato dalla stucchevolezza del monumento che Arbasino si affanna a costruirgli-si.
Alberto Arbasino, L’ingegnere in blu, Adelphi, pp. 186 € 11
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