sabato 23 febbraio 2008

La Persia oltre il komeinismo

L’enunciato è rimasto purtroppo nelle intenzioni. Il fascicolo di “Aspenia” contiene una ventina di saggi sui vari aspetti della politica, dell’economia e della difesa dell’Iran khomeinista, e soprattutto su cosa dovrebbe fare Bush. Una monografia che può risultare utile per gli sviluppi della questione nucleare, e del terrorismo nel Medio Oriente. Manca però ciò che il titolo promette e sarebbe stato più utile. E che è forse solo l’intuizione di Marta Dassù, che dirige la rivista e ne fa il tema del suo editoriale: dopo trent’anni di khomeinismo, un regime autoritario duro, molto più di quello dello scià, l’Iran è quello di sempre, pio, nazionalista, spregiatore delle tribù arabe che lo contornano, oligarchico, la vecchia Persia.
Approfondendo il tema si sarebbero potuto dire, per esempio, che la Persia si caratterizza per il carattere popolare della sua cultura, anche nelle espressioni moderne, benché soffocata dal sottogoverno – periodicamente in Iran si vota, ma la politica oligarchica è corruzione, raccomandazione, cooptazione. O che l’alterigia persiana ha oggi più di un fondamento, considerando che i vicini arabi hanno perduto le possibili virtù del tribalismo e ne accentuano le perversioni. Compresi gli emirati che giocano alla libertà d’informazione esibendo speakerine coi capelli nelle tv mozzateste: capitalizzano per adescare i modernisti progressisti euro-americani alle multiproprietà (“la natura nel Dubai”…) e a titoli spazzatura.
Sarebbe anche il tempo di fare un bilancio del khomeinismo. Che se tiene sempre saldo il controllo dell’Iran, lo ha però sicuramente penalizzato. Questo lo sanno non solo i fuoriusciti di TehrAngeles – l’Iran ha la più forte diaspora d’intellettuali e capitalisti fra tutti gli Stati contemporanei – ma anche i bazarì rimasti, i commercianti, e ogni altro imprenditore e lavoratore. Aveva più titoli per essere la Turchia di oggi, ancorato in qualche modo all’Europa, ma ha la metà del reddito turco, e gioca alla potenza sull’Afghanistan polveroso della droga e sui deserti della penisola arabica. Il frazionismo vi è debole e il bonapartismo estraneo, ma l’insoddisfazione è lo stesso forte.
Il khomeinismo è ancora minaccioso. L’antica cultura è politica, e quella degli ayatollah era aggiornata già trent’anni fa alle sottigliezze di Machiavelli e alla dottrina della forza di Lenin. Ma è in crisi, avendo fallito tutti i suoi presupposti, per primo la confessionalizzazione, e riuscito solo la politica di potenza un po’ folle dello scià. La Bomba era il piano dello scià, uno dei motivi per cui fu abbandonato dall’America di Carter: diventare la sesta, o quinta, o quarta potenza militare mondiale. Come fonte di energia l’Iran avrebbe riserve sterminate di gas nel Golfo, che evita di mettere in produzione. Ma non ha altra arma. Anche perché, bisogna dire, dal terrorismo islamico sono cospicuamente assenti gli ayatollah, come uomini, come dottrina, e come mezzi logistici.
Il potere è confessionale, caso unico al mondo. E l’antioccidentalismo è l’unico valore culturale che esprime. Che però non sa imporre, nemmeno proporre: la “Persia dietro l’Iran” non lo riconosce, non ci crede. È peraltro più antieuropeo che antiamericano: l’inglese degli ayatollah è americano, dell’America l’Iran riconosce la potenza. È uno dei regimi più sanguinari al mondo, poiché condanna a morte ogni anno 5-600 persone, anche oppositori politici, donne e bambini, e le esecuzioni esibisce in tv. Anche questo la “Persia dietro l’Iran” risente con astio, come una vergogna imposta .
“La crisi dell’islam” di Bernard Lewis è stato pubblicato nel 2003, cioè nel dopo 11 Settembre, ma viene da lontano, dall’avvento di Khomeini, e resta incontestato. Il khomeinismo fa la prova del nove della crisi dell’islam: se è l’islam al governo, allora è il fallimento dell’islam.
La Persia dietro l’Iran, “Aspenia” 1\2008, pp. 277 € 12

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