Lo spettacolo quotidiano di anni di spazzatura per le strade di Napoli e dintorni sembra niente al confronto della storia di insipienza politica, abusi e illegalità che le sta dietro. Di cui la torinese Gabriella Gribaudi, ordinario di Storia contemporanea all’Università di Napoli Federico II, e direttrice per molti anni del dipartimento di Sociologia della stessa università, fa la storia sulla rivista “Il Mulino”. Una storia inverosimile, se non fosse vera: “La Campania sommersa dai rifiuti paga la tassa sui rifiuti più cara d’Italia”. Non una storia di camorra: “Non è stata la camorra, si deve sottolineare, a indirizzare il piano e a farlo fallire”. No, di politica: “Commissariato e imprese costituiscono un circolo vizioso e autoreferenziale”. Un’impresa di sottopolitica da far tremare i polsi, a favore di amici e compagnucci, a spese delle amministrazioni comunali, che pagano carissimo questo disservizio, e quindi, doppiamente, dei contribuenti-utenti.
Sono stati appaltati nel 2000 due termovalorizzatori e sette impianti Cdr (Combustibile derivato dai rifiuti) al consorzio arrivato ultimo nella gara d’appalto, per tecnologia, capacità, qualità delle esmissioni e degli scarti. Che poi ha realizzato soltanto impianti (alcuni, non tutti) tritarifiuti. Oltre la tariffa più cara pagata dai campani, la mondezza ha assorbito quindi inutilmente un paio di miliardi, di euro, pagati dallo Stato. Questo Grande Piano Regionale del Governatore Bassolino ha impedito tra l’altro ad alcune province, Avellino e Salerno, di provvedere da sé, con i propri mezzi e i propri piani, allo smaltimento dei rifiuti.
Le discariche di cui periodicamente si fantastica la riapertura sono state dimesse da tempo perché al limite, e oltre, della capacità.
La raccolta differenziata fu istituita nel 1993, con la creazione di 18 Consorzi di Bacino. Nel 2000 si fecero 2.300 assunzioni, ripartite tra i 18 Consorzi. Si privilegiarono le cooperative di disoccupati, “eredità storica dei comitati di lotta dei disoccupati organizzati, sorti a Napoli negli anni Settanta sull’onda delle proteste sociali e delle crisi endemiche della città. I comitati lottavano per un posto di lavoro assicurato, chiedendo un’assunzione “di lotta”. I primi comitati sorsero in seguito all’epidemia del colera del 1974; erano composti da pescatori e cozzicari che erano rimasti senza lavoro. L’amministrazione Valenzi nel 1975 li immise, attraverso corsi di formazione, nei ruoli della pubblica amministrazione come spazzini, portantini, infermieri, bidelli…” Gli aspiranti al posto di lotta hanno pagato “fra un minimo di cinque milioni, corrispondenti alle prime quattro o cinque mensilità della prestazione lavorativa e il massimo di venti-trenta milioni di vecchie lire”, a presunti sindacalisti, mani lunghe della criminalità di quartiere. “Se di questi 2.316, duecento lavorano è un miracolo”, dirà il commissario Catenacci, “gli altri non fanno niente”.
Questi “lavoratori” costano sessanta milioni l’anno. Ognuno ha 1.600 euro netti in busta paga, per quattordici mensilità. Il disegno di trasferirli dai Consorzi alla Asìa, l’Azienda dei rifiuti di Napoli, dove dovrebbero lavorare e insieme perdere la quattordicesima, è stato bloccato sul nascere: i camion trasferiti all’Asìa dopo dieci giorni si sono rotti, centraline, fanali, coppe, una cinquantina mancano, "forse" rubati.
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