sabato 1 marzo 2008

La guerra civile degli arabi

astolfo

Una storia, ancorché breve, presuppone delle peculiarità, di qualsiasi soggetto o fenomeno, e gli arabi non si sottraggono. Ma le peculiarità della storia politica degli arabi non sono quelle che ultimamente si fanno valere. Eccone alcune.
Vendetta
Nella guerra per l’indipendenza algerina, fra il 1954 e il 1960-62, si sono contati sei-settecentomila morti. I morti francesi sono stati 35 mila: 28.500 militari, 2.800 civili uccisi e 3.150 scomparsi dopo il cessate il fuoco. Degli oltre seicentomila morti algerini, 141 mila risultano combattenti del fronte di liberazione, più trentamila civili morti o dispersi per effetto della guerra. Gli altri quattro-cinquecentomila morti sono vittime delle vendette dopo il cessate il fuoco il 19 marzo 1962, e fino alla costituzione del nuovo Stato indipendente a fine anno, in Algeria e altrove, in Marocco, in Tunisia, in Francia: algerini dell’esercito francese, con i loro familiari, concorrenti del Fln, berberi. In città e nelle campagne isolate, dove forse la vendetta fu più feroce.
“Yasmina Khadra”, pseudonimo del colonnello Moulessehoul, il giallista che è stato colonnello dell’esercito algerino, lo spiega in “La parte del morto”: “Appena i soldati francesi ebbero cominciato a evacuare il paese, le violenze sono ricominciate ancora più feroci. Intere famiglie venivano braccate giorno e notte dai sedicenti liberatori. I fellaga erano scatenati, davano alle fiamme le case e i campi degli sconfitti, le esecuzioni sommarie si trasformarono in stragi inaudite”. La notte tra il 12 e il 13 agosto 1962, alla fine del Ramadhan, molti algerini furono mutilati e trascinati per i villaggi prima di essere decapitati. E in alcune zone si ricorda ancora il fenomeno dei disparus, intere famiglie scomparse di notte. Ma senza che nessuno, ancora quarant’anni dopo la fine della guerra, sappia o si chieda come.
Cifre analoghe si registrano in Iraq. A perpetuazione di una serie di soprusi politici, che ha visto prima le vendette sugli uomini di Saddam, poi la riscossa dei vinti, e su tutti il terrorismo islamico, di Al Qaeda, dei salafiti, della Shura e di altri gruppi. I morti in Iraq da marzo 2003, dalla fine della breve guerra con gli Usa e dall’inizio dell’occupazione americana, sono fra mezzo milione e un milione. Si tratta di stime di vari organismi, l’università John Hopkins, l’Onu, la Croce Rossa, basate sul calcolo largamente condiviso di 500 morti in media ogni giorno. A quelli degli attentati registrati dal governo legale bisogna aggiungere una serie di vendette private, statistiscamente non rilevate. I morti americani delle truppe d’occupazione erano a settembre 3.500, e potrebbero ora avvicinarsi ai quattromila.
Tribalismo
In realtà non si sa quanti sono i morti effettivi in Algeria, come in Iraq: non si possono contare. Ma la cifra in sé è indifferente, che in Algeria cioè siano stati seicentomila o sessantamila - sono sempre troppi. Ciò che contava, e conta, è che la cifra non si può sapere: non c’è il senso della storia, o della verità della storia, nell’islam. Non comunque a fronte degli odi tribali e confessionali: non c’è il senso della guerra da evitare per motivi tribali o confessionali.
L’eccidio si è aggravato in Iraq per la persistente componente tribale, fortissima tra i sunniti. Anche se essi sono paradossalmente i gruppi egemoni nella parte urbanizzata del paese, attorno a Baghdad. L’Iraq è, insieme all’Afghanistan e alla penisola arabica, l’area ancora più fortemente tribalizzata del Medio oriente.
Sono fuori dalle vendette sistematiche in Iraq il Nord curdo, dove la famiglia Talebani “regna” dagli anni 1960. E il sud, che è in totalità sciita. Il centro del paese, a nord di Baghdad, è sunnita e tribale. E così pure l’Ovest, la provincia di Anbar, grande quasi come metà dell’Italia ma desertica e scarsamente popolata, alla frontiera con la Siria, la Giordania e l’Arabia Saudita, dove circa due milioni di abitanti possiedono venti milioni di armi, una cinquantina ogni maschio adulto, con i centri diventati famosi per gli attentati di Falluja, Haditha e la capitale Ramadi.
La pacificazione tentata dal generale Petraeus è in pratica una mediazione tribale: la tela continuamente ricostituita dei favori da pagare a questo quel gruppo tribale per ottenerne il sostegno, nel cosiddetto “triangolo della morte” a nord-est di Baghdad, e nell’Anbar.
Il fondamentalismo come questione morale
Il radicalismo islamico è una reviviscenza, all’interno di un processo di occidentalizzazione avviato negli anni Cinquanta con la decolonizzazione e il nasserismo in tutto il mondo arabo. Chi ha conosciuto Il Cairo fino agli anni Ottanta, o anche solo la Tunisia di Burghiba, confidenti, curiose, vivaci, fatica a riconoscerle nella realtà attuale. Per non dire di Beirut, per la cui rovina sono bastati gli intrighi del regime siriano. Ma chi conosce anche un poco la storia degli arabi sa che il grigiore e la tristezza attuali, se fanno tendenza, non faranno epoca.
Il radicalismo è periodico, altri casi di fondamentalismo islamico trasceso in terrorismo si registrano periodicamente nella storia araba. Su un fondo di crudeltà, per la persistenza dell’isolamento cupo del nomadismo e del deserto nella cultura metropolitana, o disadattamento. Il capo degli Hezbollah del Libano che si vanta di avere in casa teste e mani di soldati israeliani non è inventato dal Mossad. Il purismo islamico si associa alla crudeltà dal tempo del Vecchio della Montagna, nel Duecento, una storia mitica che è molto reale.
Il radicalismo islamico viene recepito come anticristiano. Non del tutto a torto, negli innumerevoli attentati in Pakistan, negli attentati isolati ma sempre più frequenti in Turchia, e nei casi del Libano, dell’Iraq, e prossimamente dell’Egitto. In Libano e Iraq le comunità eredi del cattolicesimo siriaco, anteriore all’islamizzazione, i maroniti e i caldei, sono oggetto di restrizioni crescenti. In Libano, dove avevano una posizione finanziaria dominante, i cristiani sono il bersaglio comune delle due potenze arabe che se ne contendono la leadership, la Siria e l’Arabia Saudita. In Egitto i copti, che pure sono una minoranza sostanziosa nelle città, e si ritengono i primi egiziani, si sentono sempre meno al sicuro nella nuova ondata islamica. Ma il radicalismo religioso è primariamente un fatto di politica interna, se si può presumere una politica interna al mondo arabo, che è frazionato e distinto.
L’islam radicale è nemico dei governi arabi che collaborano con Israele, e dei “governi corrotti”. E non si pone limiti. In Algeria ci sono stati almeno duecentomila morti nei dodici anni di guerra civile 1992-2004. È in superficie un movimento purista analogo a quelli in corso in tanti paesi occidentali, Italia in primo luogo, in cui la questione morale è agitata come clava politica. Ma nel gergo dei radicali dell’islam sono corrotti i regimi che non aiutano finanziariamente e logisticamente il terrorismo. Da qui le collusioni accertate dei servizi segreti pakistani, giordani, sauditi, con i talebani, i salafiti, i wahabiti, Al Qaeda, per comprare l’immunità. E quelle presumibili della Siria degli Assad e della Libia di Gheddafi, come già dell’Iraq di Saddam e degli Emirati del Golfo, anch’essi immuni al terrorismo. È una lotta alla corruzione che resta sempre terroristica, e di clan, di gruppi, perfino di mafie.
L’Occidente all’orizzonte
Il militantismo islamico attuale, compreso il khomeinismo, è stato promosso all’origine e poi aiutato dagli Stati Uniti nel quadro del contenimento anti-Urss. Ciò avveniva negli anni 1970-80, in Pakistan, in Afghanistan e nella stessa Algeria. Esso rientra tuttora, malgrado i talebani e l’11 settembre, nell’elenco dei buoni del dipartimento di Stato. E a sua volta non contesta, a una sommatoria, il ruolo sovrano degli Usa. Contesta l’integrazione del mondo arabo nel sistema occidentale. Ma in questo senso è più antieuropeo.
La storia degli arabi è sempre stata intrecciata con quella europea, dal tempo della Conquista. L’intreccio è stato culturale, politico, economico. Dal Duecento, dal tempo di Federico II, gli arabio e poi gli ottomani sono stati anche parte del concerto europeo, della diplomazia. Ma l’Europa, se non tutto l’Occidente, da tempo non è più all’orizzonte degli arabi, se non come partner economico, come sbocco del petrolio e della forza lavoro. Con poca stima, e nessun timore. Gli Stati Uniti al contrario, malgrado l’11 settembre, mantengono intatta l’aura di rispetto. È così dappertutto nel mondo globale, per la forza del mercato americano, che solo consente a tutti gli altri di arricchirsi, dagli Emirati alla Cina. Il mondo arabo, in più, riconosce e rispetta la forza.
La percezione che se ne ha in Italia e in Europa è ancora coloniale. O post-coloniale, che è la stessa cosa, lo schema sovietico dell’antimperialismo nella Guerra Fredda. Il mondo arabo invece, Osama compreso, cadute le comode barriere del non-allineamento e dell’antimperialismo, ha subito riconosciuto la forza dove si trova. Il rapporto non è facile, la modernizzazione non lo è: tra l’Europa e l’Asia, gli arabi sono sempre divisi tra l’occidentalizzazione e il deserto. Con casi accertati di schizofrenia anche clinica, per esempio negli anni 1970 dopo il primo boom del petrolio. Nel 1974 i fratelli propri del re saudita Abdullah, compreso il principe ereditario Sultan, da sempre ministro della Difesa e uomo forte, bivaccavano a Montecarlo con l’intento dichiarato di sbancare il casino con i rilanci. La tipica famiglia dell’establishment arabo, dall’Algeria all’Iraq, è quella di Osama: adolescente con fratelli, sorelle e cugini liberamente ai parties familiari e in discoteca, a Ginevra o Londra, fratelli che sono tuttora membri rispettati del gotha finanziario svizzero, un figlio di vent’anni che è stato già terrorista e vuole vivere a Londra con una moglie di cinquanta. O l’emiro del Qatar, che ha cacciato suo padre con un colpo di Stato, ha fondato Al Jazira, ha promosso un boom immobiliare, e lo vende frequentando le prime della Scala con una bellissima moglie. Ma la dissociazione non annebbia le scelte di fondo.

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