L’aneddoto del “Campo del vasaio”, l’ultimo Montalbano, è magro (è evangelico). Benché sublimi la vendetta, passione perdurante nell’età dell'acquario. E l’autore si sorpassa, a grande velocità – è a un libro al mese. Non ha più “gana” di Montalbano, e neppure dei romanzi storici. Perfino Caravaggio gli resta al di sotto del ricchissimo personaggio quale fu Caravaggio, anche in un ottimo libro del suo editore, quello che lo ha lanciato, Sellerio, su Caravaggio in Sicilia (non c’è neppure Caravaggio a Messina, dove ha lavorato a lungo tra molte ombre, c’è Caravaggio a Palermo, che non c’era). Ma tutto quello che non può più ingurgitare, di whisky e pesce di giornata, lo divora come scrittore civile, di se stesso, e del profumo di donna, nei romanzi "francesi" e nella favola della sirena Maruzza bene in carne.
Montalbano stesso è stanco. Non ha sorprese, non incontra più straordinari personaggi, non apre insomma la Sicilia trascendentale come soleva. Lui dichiaratamente non ha “gana”, neanche di menù succulenti. È sempre sostenuto con brio da Salvatore Silvano Nigro, ma niente. Per inventarsi qualcosa il suo scrittore preferito Camilleri deve traviargli l’impalpabile vice Augello, figurarsi. Mentre lui, l’eroe del “vaffa” ante litteram, se stesso fantasmizza quale cavaliere della Resistenza, a Mussolini, agli americani, alla mafia e a Berlusconi, che chiama lo stronzo e contro il quale si voleva pure dimettere, in un precedente romanzo.
Può essere l’età. Ma, conoscendola, è la Sicilia che s’è ripresa Montalbano-Camilleri, la Sicilia del cliché. Da sfottente, scorbutico, geniale, come un vero siciliano, il personaggio è diventato col suo autore il siciliano obbligato, e il bozzettismo dilaga, come già ne “Il re di Girgenti”, nella “Biografia del figlio cambiato”, e ora in "Maruzza Musumeci". Che va avanti per due terzi come un promettente racconto gotico (riesce perfino la scena di sesso, che la ricetta del libro che si vende vuole a un terzo della narrazione, e altrove in Camilleri è sempre impacciata), ma poi inciampa nei fascisti e la guerra, contro cui tutti siamo. Entrambi sembra che vogliano dare ragione a Calvino, quando rimproverava a Sciascia una Sicilia risaputa: “Questa Sicilia è la società meno misteriosa del mondo: ormai in Sicilia tutto è limpido, cristallino: le più tormentose passioni, i più oscuri interessi, psicologie, pettegolezzi, delitti, non hanno più segreti”.
Montalbano è, era, il tipico fascistone, con la fidanzata, gli amici, i subordinati, i superiori, duro e anarchico. Simpatico, e anche giusto, ma non comunista come si professa, non nel senso degli appelli e la mobilitazione permanente. Nei suoi romanzi tutto finora si è svolto nel segno di questa figura, molto meridionale, di una parte del meridione. Sono del fascistone i cliché che fanno Montalbano consolatorio. I luoghi comuni: tutto è bello in Sicilia, gli sbirri sono un po’ scemi (in basso e in alto, i piantoni e i questori), la politica è bugiarda e ladra, la mafia strana, le donne infide, e c’è pure la svedese, facile. Il lieto fine. I ruoli notabilari. L’immutabilità soddisfatta. Tutto peraltro realistico. Molto. Sicuramente più del tutto mafioso, e più produttivo. Ma in un quadro di compiaciuta stabilità. Che questo Montalbano abbia stufato il suo scrittore preferito, Camilleri, è possibile: lo scrittore ora si diverte con la vena civile. Aveva smentito Calvino, che sempre a Sciascia, a proposito di “A ciascuno il suo”, aveva stabilito “l’impossibilità del romanzo giallo nell’ambiente siciliano”. Ora non più – Calvino ha sempre ragione, per un autore della vena civile.
La vena civile è l’improbabile Resistenza. Da tempo Montalbano ha virato al politicamente corretto, tratta gli incidenti sul lavoro, la tratta degli immigrati e dei bambini, la Lega, l’omosessualità latente di Catarella, oltre alla gamma rituale degli antiberlusconismi. Anche Camilleri autobiografizza l’impegno, è quasi convinto di aver fatto la Resistenza, e ne è alfiere, contro la mafia e contro naturalmente Berlusconi. In compagnia di altri personaggi implausibili, Paolo Flores, Di Pietro, Travaglio, etc. Come in un quasiasi articolo di giornale.
L’impegno contro la mafia Camilleri sente stranamente alla Biagi. Stranamente per un siciliano, poiché magnifica Provenzano nei suoi pizzini. “Voi non sapete” è un libro contro la mafia, ma Provenzano sarà lusingato da un libro sui suoi pizzini. Non è il primo o il solo, bisogna darne atto a Camilleri. Ma Provenzano sarà lusingato in questa antologia mondadoriana del suo ruolo di prim’attore, in un libro di successo, orchestrato dal più grande siciliano sulla terra – Camilleri, che è uomo di teatro, lo sa. Una furbata editoriale ma non solo, poiché la firma l’autore più amato dagli italiani.
È un libro fastidioso. Volgare e indisponente. Provenzano è, col suo capo Riina, uno dei delinquenti più sanguinosi della storia mondiale. Ma qui è come La Fontaine, come lord Brummel. C’è perfino la mafia buona, quella “vecchia”. E il Capo della procura antimafia che vi certifica l’“assoluta sofferenza” di Provenzano ogni volta che ha dovuto ordinare un crimine, cioè ogni giorno – “dovuto”? Questa pubblicistica, che non è storia, non è antimafia, non è giustizia, ma fa tesoro della curiosità morbosa, non è niente di diverso dalla biografia di un pedofilo, uno stupratore, ogni altro delinquente abietto. Il mafioso ha un cervello semplificato: è rozzo. E nessun altro “significato” di cui valga la pena fare l’analisi. Provenzano è più notevole degli altri solo perché ha al suo attivo una quarantina di killeraggi. E quarantatré anni di finta latitanza, di cui non viene chiamato a rendere conto. Camilleri fa la semiotica dei suoi pizzini, gli appunti sgangherati con cui comunicava coi suoi affiliati. Come di un linguaggio superiore, analizzato con la stessa cura che si dedicherebbe a un’opera letteraria. Finendo per magnificare la mafia anche nel suo aspetto meno magnificabile, l’inarticolazione verbale, per analfabetismo o incapacità di argomentare - di uno che pure ha un figlio professore all'università di italiano, si vede che il crimine è incorreggibile. Una grande tristezza.
Si può aggiungere che Berlusconi, che Camilleri ultimamente chiama Berluscazzoni, è con Mondadori il suo editore principale. Che molto investe sullo scrittore e coraggiosamente ne valorizza ogni parola, compresi gli scarti, per tutti i lettori, dai Miti ai Meridiani che lo consacrano, ai Cd, ai Dvd, e al nuovo filone dei romanzi francesi, o dell’odor di femmina. E porrebbe un problema, a ogni resistente: come mai questo cazzone prende due voti su tre in Sicilia, da tempo ormai immemorabile. Ma non si può pretendere da Montalbano la soluzione di ogni rebus.
“Il tailleur grigio” è, come “La pensione Eva”, e la stessa favola di "Maruzza Musumeci", il sesso riportato al quotidiano. Di nuovo, nella formula del romanzo francese o di moeurs, c’è il colore: il rosa dell’adulterio è virato al nero – da qui il grigio del romanzo mondadoriano? Il romanzo francese in Italia è invenzione ormai secolare, tra Marco Praga, "La biondina", Ada Negri e Umberto Notari, o Guido da Verona, o Pitigrilli - se misurato sul Verga fiorentino anzi più che secolare, sono passati quasi centocinquant’anni. Anche se nobilitata quale letteratura Fine Secolo, di orizzontali, leonesse, allumeuses e altrettali finezze, e i Fine Secolo ormai sono due. Mentre la donna fatale resta nel novero di Hoffmann, o della letteratura delle androidi, che parte un po' prima, dalle "Misantrofile" di Révéroni de Saint-Cyr. E la sirena nel repertorio mediterraneo, fino all'Idrusa di Otranto che essa molto ricorda. Di diverso c’è, anche qui, l’italiano siculizzato di Montalbano, con cui Camilleri si racconta ora di preferenze le storie che va scrivendo - anche lei è diversa, benché l'aneddoto non sia nuovo, le corna in Sicilia: una moglie “Barbie”, che si anima in prossimità della morte di lui.
Questo italiano dialettizzato, con cui Camilleri raccoglie miriadi di lettori, sarà un fenomeno importante. Con tutto Bossi la Padania non ha avuto un ritorno di letteratura “nazionale”, né la Lombardia, né il Veneto. La Sicilia invece sì. Perché la Sicilia è una nazione, anche senza un Bossi. Anche di numero: tra siciliani dell’isola e siciliani del continente, per non contare quelli dei cinque continenti, fanno bene un popolo. I lombardi probabilmente sono di più, ma non esistono – si dice per dire: non esistono in letteratura. A parte quelli che sono siciliani. O pugliesi, o napoletani. La vera carica leghista – identitaria – è siciliana. Nel bene e nel male.
Nel bene la guida è Camilleri scrittore, che del dialetto ha elaborato una forma intermedia. Portando agli altri lettori, che sono pur sempre la maggioranza, un lessico comprensibile o, dove non lo è, subito tradotto, con la naturalezza teatrale, della scrittura parlata, introducendo cadenze nuove e sorprendenti. “Maruzza” è dialettale nel senso che Montalbano ha da tempo dimenticato, della specialità del tempo e del luogo, della caratterizzazione dei personaggi e delle cose. Con i profumi della terra, la terribilità del mare, per i terragni e non solo, le fantasie di un mondo senza parole. Perfino il “lavoro dei campi” Camilleri riesce a vivificare, la rimonda degli alberi, la bonifica del terreno, l’architettura del necessario. Si diverte anche, e fa divertire, colloquiando per proverbi (quanti proverbi sulle donne!), o magicamente in greco, con versi dell’“Odissea”, senza forzature.
Ma è una lingua d'autore e non un linguaggio - a meno che non sia quello borghese, della borghesia professionale, agrigentina, palermitana: contemporanea del leghismo ma ante Lega, è la lingua, questo italiano farcito di dialetto, delle borghesie meridionali dei medici, i farmacisti, e i baroni, per definizione nostalgici (le baronie siciliane, e più quelle imaginarie, desiderate, sono all'origine del più gran numero di memorie familiari, il genere dominante del tardo Novecento, che si prolunga in questo millennio, in italiano, francese, inglese e frange tedesche). Ma nemmeno questo si può dire del camillerismo.
La speciale lingua di Camilleri non è realistica, di personaggi e ceti che dicono l’italiano ma pensano in dialetto. Né è storica come avrebbe potuto, se Camilleri ha conquistato Milano meglio di Bossi. Prima di diventare insignificante, per incontinenza, è stata il siculo italianizzato alla D'Arrigo. Sì, ed è degno di nota: il siculo di Montalbano è quello del dimenticato autore di "Horcynus Horca", di cui ripete strutture sintattiche, fonemi e idiotismi, più che di Verga, e per niente di Pirandello, che pure è conterraneo di Camilleri, con analogo contrappunto umoristico di idioletti. Una lingua di fantasia, evcativa, sapiente anche, tra persone e vicende che alla lettura (e nei film del geniale Sironi) si presentano archetipiche, stagliate nel mito. Ma artificiosa.
Con un tocco giocoso che può giocare per antifrasi. Sorprendente cioè, lieve com'è e riderella, se i dialetti meridionali sono quelli di Corrado Alvaro, “piagati e grondanti sangue”. Un calco giocoso del terribilismo di Verga, di Pirandello, dei poeti dialettali, e delle cronache - che è anch’esso un calco, di maniera, la maniera della scrittura sociale. Ma liberatorio, meglio ancora che gli ambienti e le storie, per una volta non di mafia (Alvaro dice la lingua del Sud, “la parola magra e disadorna, acuta e dsperata, vestita di pelli e nutrita di locuste”, legata alla Passione, di Cristo).
Montalbano sarà stato l’altra Sicilia che a Calvino sfuggiva, questa quintessenza della nostra civiltà che sopravvive al genere mafioso, al genere editoriale, forse per caso.
Andrea Camilleri, Il campo del vasaio, Sellerio, pp. 285 €12
Voi non sapete, Mondadori, pp.216, € 17
Il colore del sole, Mondadori, pp.111, con 12 foto a colori, €6
Il tailleur grigio, Mondadori, pp.144, €16,50
Maruzza Musumeci, Sellerio, pp. 155, €10
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