giovedì 15 maggio 2008

I quindici anni perduti dell'Italia

Crescono le esportazioni malgrado il caro euro, c’è insomma competitività, ma a scapito del reddito disponibile. I profitti sono alti, anche in questi anni di crisi. Per le banche perfino nella loro crisi più grave dai primi anni1930. Ma le retribuzioni stagnano o latitano: l’Italia nel complesso s’impoverisce mentre il resto del mondo va avanti, con grandi balzi.
L’opinione corrente, Tremonti compreso, imputa l’impoverimento collettivo dell’Italia alla globalizzazione, all’arrivo del Terzo mondo alla sviluppo. Che col lavoro a un dollaro l’ora sarebbe imbattibile. Ma con un dollaro l’ora altri sanno competere gagliardi, dagli Usa alla Germania. La verità è che in Italia da tempo non s’investe. “Il cavallo non beve”, si diceva una volta. E non s’investe per un motivo noto, seppure trascurato: l’eccessivo costo del lavoro – il costo complessivo, non la retribuzione.
Una parte non a caso trascurata dalla stampa lo spiega nell’ultima Trimestrale di Padoa Schioppa, l’ex ministro dell’Economia: “Dal 2000 al 2007 la crescita dei salari reali in Italia è stata molto modesta: 0,7 per cento la media annua… Nel 2007 essa è risultata ancora più contenuta (0,2 per cento)”. Le retribuzioni sono ora troppo basse, benché l’Italia figuri nel G 7, i paesi più ricchi del mondo: “Secondo una recente pubblicazione dell’Ocse (“Taxing wages”, ottobre 2007), i livelli dei salari reali italiani sono inferiori a quelli degli altri paesi industrializzati. In una famiglia con un singolo percettore di reddito e due figli, nel 2007 il salario netto è inferiore del 15,9 per cento circa alla media Ocse, del 34 per cento circa rispetto alla Germania e del 17 per cento circa rispetto alla Francia”.
I lavoratori italiani sono gli ultimi. Perché la loro produttività è ferma: “La bassa crescita dei salari italiani è essenzialmente conseguenza della scarsa dinamica della produttività”, scesa dal 2,4 per cento annuo medio degli anni 1980 all’1,1 nella seconda metà degli anni 1990, e a zero negli anni Duemila, 2007 incluso. Mentre in parallelo è aumentato il costo del lavoro. Con retribuzioni in relativo calo il costo del lavoro è aumentato di più che in ogni altro paese dell’area euro, del 33,8 per cento contro una media del 21,6 negli anni 1999-2006, ed è stato pari alla media euro nel settore privato. L’esito è: “In presenza di una crescita molto modesta della produttività, l’aumento del costo del lavoro… va a incidere direttamente sulla competitività, e quindi sulle prospettive di crescita dell’economia, e in particolare su quelle dei redditi delle famiglie”. Un circolo vizioso di cui è noto l’innesco.
Il radicale smobilizzo del mercato del lavoro quindici anni fa, pur lasciando inalterato il famoso articolo 18 sull'impossibilità di licenziare, è la prima causa del lag tra costo del lavoro e retribuzioni. Gli ammortizzatori sociali con si sono coperti i quasi tre milioni di licenziamenti, tutti finiti in pre-pensionamenti, vanno spesati. Bisognerebbe prenderne atto, eliminando questa escrescenza, con un atto di finanza straordinaria. Ma non si può farlo per il vincolo europeo. Un secondo circolo vizioso si sovrappone al primo, costituendo a questo punto una rete soffocante.

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