Giuseppe Leuzzi
Milano ha un sindaco di grande intelligenza politica, ma genovese, giudici napoletani, direttori di giornali romani, un cardinale fino a ieri illustre ma torinese, e un capo politico varesino. Di milanese ha i banchieri, Berlusconi e l’Inter, di cui tutti farebbero volentieri a meno.
C’è, c’è stata, un’era leghista, e questa è la sua Italia.
Ebbe una pessima impressione di Napoli, Walter Benjamin, e ne scrisse male. Di una città “porosa”, concetto che altrove avrebbe apprezzato (a Mosca, a Marsiglia), ma a Napoli come tutto lo disgustò. Dice “porosa” anche la vita privata, come quella degli ottentotti: “Ciò che la distingue da tutte le altre città Napoli lo ha in comune con il kraal degli ottentotti”.
Non sappiamo cos’è il kraal degli ottentotti. Né Benjamin ci ha fatto caso, non lo spiega, non ne parla altrove. La cosa ha due letture. O il visitatore ha un pregiudizio, e la città visitata ne è vittima. Ma questo non è Benjamin, persona di enorme curiosità. O una città può dare ai nervi, e allora si perde anche il gusto della letteratura.
In altra immagine di “Immagini di città”, Walter Benjamin evoca “la solitudine solitaria dei tetti delle città del Sud”. Che ora invece ne hanno dimenticato l’arte, le case lasciano incompiute, irte di fasci di tondini, in attesa di fare un altro piano, con o senza condono, l’abusivismo è una necessità. E magari ne hanno dimenticato l’arte.
Nel Sud al tempo del delitto d’onore i ragazzi crescevano nell’incubo di dover compiere un assassinio e andare in prigione se le loro sorelle, statisticamente sempre più numerose, avessero fatto l’amore con qualcuno.
Sul “Sole 24 Ore”, in un vecchio ritaglio del 19 giugno 2005, il giorno del compleanno, Riccardo Chiaberge suggerisce ai milanesi “di fare quattro passi nello sfacelo di piazza Mercanti, o di ficcare il naso nell’ex garage di piazza San Babila ridotto a discarica, o in uno dei tanti caseggiati fantasma, transennati dai tempi dei bombardamenti alleati”. Dodici anni dopo “Fuori l’Italia del Sud” i Mercanti, San Babila e il Palazzo Senatorio erano dunque sempre sporchi e inchiodati. Milano è piena di se stessa.
Un giornalista di Milano va a Palermo o Reggio Calabria, e viene sommerso dai dichiaratori di ogni segreto. Di ogni prevaricazione. Di ogni malaffare. Di ogni ingiustizia. Un giornalista di Palermo va a Milano o Firenze e non trova nulla. Nessuno che denunci la speculazione palese, di Borsa, sugli immobili, negli appalti. Gli ospedali dove si muore. Le polizie provinciali in Suv. Le incredibili clientele dei sindaci e governatori, scelte, carissime, magari di coscia lunga, o sotto forma di consulenti specializzati.
In tempi di lotta senza quartiere alla mafia, la s’incontra in piazza come un qualsiasi pensionato o perditempo. Non si può uscire in paese, ad Afragola o a Locri, senza il timore di essere abbordati da un giovinastro ben conosciuto che vi chiede duecento euro in prestito per un’urgenza, che poi vi restituirà, o duemila euro, per l’anticipo della macchina, o quello che gli passa per la testa. La lotta alla mafia si fa segandone la gioventù. Va colpito il fascino del guadagno senza lavoro, le centinaia, migliaia, diecine di migliaia di ragazzi che terrorizzano ogni lavoratore con le loro sevizie, ed è inevitabile che diventino killer.
La mafia allegra dell’antimafia
Il nodo della mafia è che per voi è un problema di vita o di morte, della vostra attività, della vostra persona, dei vostri familiari. Ma per chi è addetto a contrastarla è solo un fatto di criminalità tra i tanti, e un problema di priorità, procedure, tempo, e prove che voi non avete. Senza pressione, senza passione, salvo quella che mettono su di voi, se per caso ci inciampate. Mentre la lotta alla mafia solo i carabinieri possono farla: repressione, e poi repressione, e ancora repressione. Con tribunali rapidi e carcere sicuro.
La politica c’entra, certo. La mafia da qualche tempo si preferisce politica, non senza verità. Ma bisogna essere precisi. La politica è vittima della mafia. Vittima di uno stato di fatto, nei paesi e anche nelle città in Campania, Calabria, Sicilia. Mentre la politica che si specchia nella mafia è solo l’antimafia. È indigesto, ma è così: nell’antimafia nazionale, in quelle regionali, nei tanti comitati cosiddetti di base, e nei partiti che questo fenomeno governano. È l’antimafia che stabilisce le regole. Che segnala cosa si può fare e cosa no, e chi va punito – chi le “forze dell’antimafia” non gradiscono. Certo non volendo. Anche se delle tante antimafie fanno parte uomini e donne legati alla mafia - e sono anche noti\e. Lima e Falcone sono due casi, ripetutamente denunziati da Orlando e Santoro in tv – i mafiosi danno molto credito alla tv. Andreotti disse all’epoca che l’assassinio di Lima, suo proconsole, gli veniva “buttato tra i piedi”. Per condizionarlo: il delitto può non essere stato ininfluente sul cambio di casacca dell’onorevole. Falcone era inviso al Pci. I casi sono tanti, da Mattarella a Fortugno.
Che la mafia sia interessata alla politica è un fatto. È manageriale e capitalistica in quanto legata alla politica. Fra le tante prove la più evidente è statistica: se si fa il conto dei morti di mafia non mafiosi, non vittime cioè di regolamenti di conti, si vede che in maggioranza sono politici, più i magistrati e i giornalisti. Gli imprenditori (industriali, negozianti, professionisti) sono pochi. La mafia intimidisce, per supportare i suoi ricatti, ma non uccide le vittime del pizzo. Le sua vittime sono sempre traditori, oppure nemici degli amici. A lungo la Sicilia, Sciascia compreso, ha voluto la mafia indipendente, ma è evidente che uccide anche per conto.
C’è un clima di svagata furfanteria attorno all’antimafia. Suoi esponenti anche illustri, democristiani, radicali, socialisti, comunisti, hanno preso localmente i voti dei mafiosi e ne sono stati, ne sono, i referenti. Dei magistrati non si può dire, nel senso che non è opportuno. Ma la loro selettività è impressionante, e non è un fatto di errori. Con effetti perfino controproducenti. L’accusa a Dell’Utri di mafiosità, il giorno prima delle elezioni, a propaganda chiusa, per avere ricevuto due telefonate da un ex Dc trapiantato in Venezuela, l’imprenditore petrolifero Micciché, non è certo antimafia, e forse è un servizio politico reso allo stesso Dell’Utri: si scredita l’antimafia, si screditano i collaboratori di giustizia, si screditano le intercettazioni, che devono essere ossessive, minute, a carico di Dell’Utri non solo, si scredita l’anti-berlusconismo.
L’ipotesi non è implausibile. Venendo da Reggio Calabria, l’accusa a Dell’Utri potrebbe essere uno sberleffo: per il linguaggio calabrese la beffa è irresistibile, anche a danno di se stessi. Anche perché Dell’Utri non è indagato di niente, il suo nome è solo accidentalmente apparso, sui giornali di sinistra. La beffa è insomma doppia. Ma l’inquirente, Di Palma, non è calabrese. Ed è improbabile che Dell’Utri sia emerso casualmente nelle intercettazioni sui rapporti tra Micciché e la cosca Piromalli, i Piromalli non parlano al telefono. È probabile che le intercettazioni fossero sulle telefonate di Dell’Utri. A meno che i Piromalli non siano informatori, anch’essi, collaboratori di giustizia.
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