Giuseppe Leuzzi
Napoli. I Borboni vittime di Napoli e non Napoli dei Borboni? Si è sempre detto, senza crederci, perché sono stati i primi illuministi in Italia, i primi industriali, e insomma al passo coi tempi. Senza credere nel loro illuminismo, opportunistico - come se gli altri, i Savoia, gli Hohenzollern, i Sassonia-Coburgo, ne fossero appassionati. Senza crederci loro stessi. Ma sarebbe ora di ripensarci: è l’unica storia possibile, la spazzatura di Napoli viene da lontano. Dal lazzaronismo, dalle continue invasioni di campo franche e iberiche, dall’oscuro Medio Evo, dalla galere di Baia e Capo Miseno. E dall’isolamento internazionale, perché no.
Napoli è il Sud, ed è l’Italia. Poche aree sono sfuggite a Napoli, così geniale e superficiale, le regioni “rosse”, le Venezie, limitandone la presenza a qualche magistrato sperso e a qualche paglietta sparso. E Roma naturalmente – ma già con qualche danno. Si è napoletanizzato subito il Piemonte, coi suoi prefetti, generali e capi della polizia, brillanti e ignavi, che hanno letteralmente distrutto il Sud. Si è napoletanizzata nel dopoguerra Milano, apprendendone l’uso dell’insalata ma anche, con Borrelli e dopo Borrelli, come distruggere l’Italia, in Borsa, in politica, negli affari, e perfino nel calcio.
Napoli è stata “il Regno” fino praticamente al referendum per la Repubblica. Ma s’è rapidamente acconciata, e da decenni è anzi repubblica che bordeggia l’anarchia.
Milano. A Basiglio, o Milano 3, il comune più ricco d’Italia, una famiglia d’immigrati meridionali dava fastidio. Davano fastidio i due figli, di nove anni lei e tredici lui, che andando a scuola la infettavano. Sia quella elementare sia la scuola media. Finché un’insegnante delle elementari, la direttrice, il sindaco, lo psicologo e gli assistenti sociali non sono riusciti a mandare sorella e fratello in galera – in casa di correzione, in due case separate. Con l’imputazione di disegni osceni.
A questo punto succede una cosa straordinaria: virtù impensate emergono nel giornalismo del gossip. Il fatto non poteva sfuggirgli, che dei meridionali pecorecci vadano a infettare la civica Milano. Ma allora, perpetuandosi lo scandalo per qualche giorno, si viene a sapere, un po' detto, un po' negato, ma insomma: non la bambina incriminata ha fatto il disegno osceno, bensì un’altra. Come si arguisce del resto dalla didascalia che lo accompagna. Dopo due mesi, e una sentenza del Tribunale dei minorenni, anzi esattamente 69 giorni, i due bambini incarcerati vengono liberati. Non subito: il ragazzo si farà un'altra settimana, perché la psicologa che seve dare il prescritto parere, non ha avuto il tempo di perscrutarlo.
Il fatto non vuole dire nulla. Magari la direttrice, l’insegnante e le assistenti sociali sono meridionali, e la psicologa che dopo due mesi, trovando il tempo, scagiona i due bambini, è settentrionale. Oppure è viceversa. Il fatto è che Milano imbastardisce tutto. E sempre si assolve.
La casa di correzione i giornali pudicamente chiamano istituto, si elogia il senso civico della bambina che si è accusata dei disegni osceni, si critica lo Stato insensibile, e si tenta di non dire più che i colpevoli erano meridionali, infiltrati nel comune più ricco d’Italia. Di tacere che è stato detto. Ma sopratutto se ne parla il meno possibile: non ci sono tavole rotonde né articolesse sui bambini traumatizzati, sui genitori aggrediti, sugli insegnanti incapaci di leggere o razzisti, sugli psicologi che si pronunciano una volta a settimana - gratis?
Nessuno si chiede se l’insegnante e il direttore didattico abbiano poi denunciato la bambina che ha fatto i disegni (non l’hanno denunciata), se gli assistenti sociali siano venuti a prelevarla e richiuderla (non sono venuti), o perlomeno se abbiano chiesto ai suoi genitori come mai a nove anni sapesse così bene il kamasutra (non l’hanno chiesto). Né perché a Basiglio lo Stato dei milanesi vituperato usi due metri.
Solo è stata preparata con cura la festa dei compagni per il ritorno - la solita scena televisiva dei bambini civilmente impegnati. Magari dallo stesso sindaco e dal direttore didattico, la Rai non è così cinica.
Milano, sorniona e sempre furba, pensa di dominare i suoi napoletani, di giocarli, e invece ne è infetta. Da Mani Pulite, con magistrati napoletani che riempivano le tasche di avvocati napoletani, a Calciopoli, le cui cronache napoletane hanno colmato la milanesissima “Gazzetta Sportiva” ma svuotandola - la leggono sempre meno, e le sue Milan-Inter soffrono di rimorsi e pastette. Milano è in via di meridionalizzazione, cioè in declino.
È vero che Milano si lascia impregnare, già da Mussolini, poi da Craxi, ma sempre sopravvive, è madre robusta. Ora un sindaco genovese potrebbe salvarla, avendole dato con l’Expo un impegno preciso su cui operare. Ma Napoli è insidiosa. È affabile, spensierata, disinteressata, e colpisce a morte.
Lega e Mani Pulite vanno assieme. Non sono il ripudio di Roma Ladrona e dell’Italia Unita. Sono la riconquista del Sud – Roma è il Resto d’Italia. Da parte dei milanesi, dopo la conquista piemontese. A condizioni di realizzo: un mercato di sbocco, per la moda pronta, le arguzie Mediaset, e i vini algidi dell’Oltrepò, e un mercato del lavoro, si spera, di nuovo a buon mercato con le gabbie salariali.
La differenza tra Torino e Milano è enorme, tra il senso dello Stato e la corruzione in atti giudiziari.
“E pensare che non c’è nebbia nei paesi latini, i paesi degli assassini”, dice Sherlock Holmes nel racconto “I piani di Bruce Partington”.
Lo dice stizzito, contro i ladri e i grassatori di Londra che se ne stanno tranquilli. Ma è vero, non c’è la nebbia al Sud. E ci sono gli assassini. Quelli rilevati, non quelli delle statistiche, che sono sempre più numerosi al Nord.
C’è, nella guerra piccolo libanese tra i Rugolo e i Crea a Gioia Tauro, il vincolo familiare classico della vulgata mafiosa, tra un suocero e tre generi da una parte, e un padre e tre figli maschi dall’altra, le due parti in lotta. Ma ci sono anche generi che tramano contro il suocero, subordinati che sparano al Capo, tutti in un modo o nell’altro confidenti dei carabinieri, e pentiti da quindici anni che continuano a dettare l’oggi.
La mafia è una guerra di tutti contro tutti. La sociologia delle cupole, della mafia imprenditrice, del controllo del territorio, della mafia politica serve ad ampliare i confini della violenza, ad adeguarli alla realtà storica. Ma la mafia – il crimine organizzato – è una guerra “civile”, fra persone e gruppi mafiosi. Viene combattuta e vinta – la mafia è sempre perdente-vincente – nelle aree socialmente molli. Per psicologia, traumi, spopolamento (l’emigrazione, che è sempre dei più determinati, se non forti).
Il Sud, il familismo, la corruzione pubblica? I Borboni furono riformatori per primi. E gli arabi sono come gli spagnoli, la storia conta poco. I bravi di Manzoni, che prosperavano sotto le “grida” spagnolesche, di un governo assente, furono sconfitti, in breve, in silenzio, definitivamente, da preti coraggiosi, contadini tosti, mercanti intraprendenti, che sapevano il valore dei soldi, e della fatica, l’applicazione costante.
Non c’è una mafia imprenditrice, ci sono imprenditori che lavorano per la mafia: consulenti, manager, mediatori, prestanome. Il mafioso non è uno che crea, in nessuna circostanza (estorsioni, appalti, droga, terreni e immobili, esercizi commerciali): La sua opera è sempre di distruzione, di valore aggiunto oltre che di persone e famiglie: dove c’è la mafia la ricchezza non cresce ma diminuisce.
In assoluto può crescere ma comparativamente diminuisce, rispetto a un periodo anteriore, rispetto ad altre società in analoghe condizioni. Dalle rovine, e con dispendio di risorse, il mafioso usa ora costruire, alla luce del sole, gli “imperi del racket”, catene commerciali, centri catering e di ristorazione “dalla culla alla tomba”, per ogni occorrenza familiare, finanziarie e banche popolari, società sportive, per i vantaggi fiscali connessi, aziende agricole modello, per le sovvenzioni, ma con spreco di risorse e per periodi limitati. Le risorse vanno agli imprenditori di contorno, che non possono reinvestirle se non in piccola parte, per la necessaria riservatezza. Mentre i mafiosi si assassinano o si denunciano a ogni generazione: la violenza prevale sempre su ogni considerazione di utile.
Nella mafia è una carica straordinaria di energia – si può (si deve) anche leggere così. I fratelli Graviano, all’ergastolo per l’assassinio nel settembre 1993 di don Pino Puglisi, il parroco di Brancaccio, studiavano in carcere nel 2005 per laurearsi, uno in ingegneria e uno in matematica, hanno voluto figli protetti a Roma in un collegio di gran nome, e continuavano a gestire i loro affari attraverso “delegati” e “prestanome”. La mafia esprime una forte carica di energia dissipata, o convogliata su canali improduttivi. Resta da sapere il perché.
La mafia si differenzia dalla delinquenza comune perché la violenza vi esprime anche energia, capacità organizzativa e produttiva. I mafiosi hanno tutto dell’ottimo imprenditore, se si esclude la misura nella violenza: innovazione, capacità di valutare il rischio, capacità di creare ricchezza. Partendo da condizioni sfavorite: immigrati marginali e isolati in America, villani in Sicilia e Calabria.
Sono una conferma o sono una smentita della concezione liberista della società? Della democrazia e della ricchezza che s’incrementano nello scambio? Questa è la chiave, e quella psicologica. Mentre l’argomento è stato finora trattato ironicamente, in stile marxiano, per denunciare le origini sempre poco onorevoli del capitale. O dal sociologo Pino Arlacchi in chiave giudiziaria (dove sono i soldi della mafia).
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