La Germania sconfitta risponde, l’America non capisce
Un’inchiesta molto citata, sulla Germania negli ultimi mesi di guerra vista dal di dentro, fa capire che la storia dev’essere ancora scritta, sulla Germania in guerra e nella sconfitta, dopo la prima reazione irritata.
Saul Padover non è il primo venuto: al tempo della sua inchiesta in Germania, nel 1944-45, al seguito delle truppe americane, aveva quarant’anni. Benché emigrato da Vienna coi genitori nel 1920, aveva fatto studi nelle migliori università americane, Yale e Chicago. E benché di famiglia ebraica, aveva all’attivo studi apprezzati di medievistica. Dopo questa ricerca sulla mentalità tedesca per conto dei servizi d’informazione americani, di cui era coscritto, condotta con quotidiane interviste con la gente comune, insegnerà Scienza politica a New York e pubblicherà apprezzate biografie di Marx e Jefferson, e antologie di Madison e Nehru. Ma gli sfugge, benché gli venga ripetutamente spiegato da molti dei tedeschi che interroga, il disegno, tedesco e forse anche americano, di uscire “da destra” dalla sconfitta. Questa possibilità non c’è, c’è solo, per Padover, l’ipocrisia e la nullità politica dei tedeschi: tutti i suoi interlocutori sono piagnucolosi e pieni di autocommiserazione. Un’opinione che non varrebbe nemmeno la pena di rilevare se non fosse stata a lungo prevalente e anzi unica sulla Germania alla fine di Hitler.
Padover registra bene ma non capisce. Il capitolo 45, l’incontro col vescovo di Aquisgrana, è un momento di estrema lucidità, una lezione di politica e di storia esemplare: Padover la registra ma non la capisce, il vescovo riduce a uno che si dice povero ma porta al dito un ametista “grosso come un uovo di pettirosso”, e chissà quali nefandezze nasconde. Due capitoli prima il borgomastro di Aquisgrana, Oppenhoff, era stato anch’egli singolarmente chiaro sull’esigenza di creare una Germania, magari divisa, ma antisovietica e anticomunista, e sul suo destino personale – sarà ucciso in un attentato come prevedeva, sapendosi minacciato. Padover riferisce, anche dell’attentato, ma senza capire. La sua capacità critica si ferma al politicamente corretto: la Germania è stata nazista? quindi dev’essere socialista. I tanti socialisti che incontra non lo seguono su questa strada, ma non importa, sono i soliti tedeschi inutili.
Il libro ha alcuni squarci di verità, soprattutto sulla mentalità della superiorità, persistente nella sconfitta – e dopo, nel viaggio ormai troppo lungo dell’Unione europea. Il saccheggio vile del castello di Paderborn. I quadri di pelle umana della moglie ninfomane di Koch, il capo del lager di Buchenwald. La vanità di Montgomery, il maresciallo che voleva essere il primo ad attraversare il Reno: siccome il mite Bradley lo precedette, essendosi trovato a sorpresa non minato il ponte di Remagen, l’inglese stava per dichiaragli guerra.
Ma l’incapacità a capire toglie il respiro. L’effetto è moltiplicato dalla riedizione nel 2003 di un libro del 1946, per di più reperibile ora ai Remainders, che danno un’idea di sopravvissuto. E dall’idea che la stessa incapacità a capire sia applicata ora in Iraq e Afghanistan. Che il miracolo della liberazione e della solida costituzione in Italia sia solo l’effetto della solida Resistenza.
Saul K. Padover, L’anno zero, Utet Libreria, pp.367, € 9,25 (Librerie Libraccio-www.ibs.it)
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