Non è Gelmini che chiude l’università, è l’università che chiude se stessa. Ha ben cento corsi di laurea con meno di dieci iscritti. A Bologna, Rieti, Rende, Camerino e Forlì ci sono corsi con un solo iscritto. I milanesi pr del milanese ministro rigirano rapidamente la frittata, con la solita sapienza milanese. E l’impunita faccia tosta di sempre, non è per caso che Milano domina l’Italia: l’università merita di essere chiusa. Dopodichè, assicura il ministro, verrà rifondata, privata (leggi: per chi ha i soldi) e internazionalizzata (i laureati li prendiamo in Asia, costano poco e parlano inglese).
La presentazione che Gelmini ha fatto ieri delle sue malefatte è da manuale di scienza della comunicazione – piccolo manuale per piccoli provinciali: altrove se ne sarebbe riso. I soldi quest’anno non ci sono, ma vedrete, magari negli anni successivi qualcosa si rimedia. Ha pure venduto allegramente un fantomatico Piano per la ricerca industriale universitaria nel Mezzogiorno di sette miliardi – di lire? Tutto è riuscita a vendere, anche gli 887 progetti di ricerca individuali finanziati e assegnati dal governo Prodi, che non è arrivata in tempo a bloccare. Sul “Messaggero” è toccato pure di leggere questo piccolo annuncio: “Contrariamente a quanto in alcuni ambienti era stato paventato, il piano della Gelmini ha riscosso il consenso di tutti i soggetti interessati”. Ma a pagina 2, "In primo piano" - gratis?
Cento corsi su 5.200 sono forse un errore che gli stessi senati accademici hanno già rimediato. Ma tanto basta ad alimentare la spocchiosa impudenza ambrosiana. Né la ministra chiude quei corsi, no: taglia i fondi per tutti. Ci sono duecento sedi universitarie per un’ottantina di università, insiste ancora. Tacendo che la moltiplicazione delle sedi è stata una delle poche risorse che le università hanno avuto negli ultimi vent’anni per raccogliere un po’ di soldi, da comuni e province. Tace sui famosi accordi coi privati per la ricerca, non un euro venendo da banche, fondazioni, industrie. Tace che i pochi soldi alla ricerca vengono da istituzioni internazionali, su progetti di precari, in grado di “sollevare”, come si dice a Milano, anche due e tre milioni di euro. A testa, essendo personalmente pagati poche migliaia di euro l'anno, e qualcuno anche non pagato. Di cui nei giudizi internazionali si dice che è una vergogna che lo Stato italiano li tratti così male. Tace sul fatto che l’insegnamento si fa all’università con almeno 53 mila precari, molti non pagati – che però sono forse duecentomila: Gelmini non lo sa e non se ne occupa (ma in questo è certo cento volte migliore degli accademici stessi, le cui turpitudini contro l'università stessa sono inenarrabii, non fossero materia quotidiana).
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento