Ci sono due letture della rottura dei negoziati per il commercio internazionale a Doha, nel Qatar. Una sottolinea l’intransigenza di Cina e India. L’altra lo scarso interesse americano, e quasi una forma di abiura dalla globalizzazione.
Una terza lettura, dell’America boia, globalista o antiglobalista che sia. Ma è solo italiana - solo in Italia, che conta quanto il re del Tonga, è d’ordinanza l’antimericanismo, l’America considerare un bruscolino. Insomma, se ne può fare a meno. Il negoziato del resto è fallito senza ragioni, al di sotto di quelle pretestate per farlo fallire.
Il negoziato di Doha è fallito su un fatto minore, la clausola di salvaguardia per i paesi in via di sviluppo. Che consente loro tariffe e contingenti a protezione delle colture nazionali contro le importazioni di beni agricoli. Nel presupposto che la protezione si debba comunque limitare, per evitare che i quattro-cinque miliardi che vivono nei paesi più poveri debbano pagare prezzi esosi per mantenere in vita le attività nazionali, poche o molte che siano.
La clausola di salvaguardia è un fatto minore nella maglia gigantesca della World Trade Organization, considerata l’entità e la tipologia delle produzioni che Cina e India vogliono proteggere: il riso, alimento di base nazionale, il cotone e poche altre. Ma è in realtà un fatto sostanziale, per due motivi.
Cina a India hanno deciso di proteggere le produzioni nazionali a fronte degli enormi sussidi che le attività agricole nei paesi ricchi hanno dai loro governi. Per darne un’idea: Usa e Ue spendono per contributi agricoli a fondo perduto 300 miliardi di dollari l’anno. Una cifra impensabile – tutti gli aiuti internazionali ai paesi in via di sviluppo non superano i 50 miliardi di dollari. In molti casi sono sussidi per “non produrre”, il che è uno scandalo nella penuria degli ultimi due anni di beni primari.
L’altro motivo è l’accresciuto peso internazionale delle due economie negli otto anni dacché il negoziato è partito a Doha, all’indomani dell’1 settembre. Sia negli scambi commerciali che nella politica del dollaro. La globalizzazione d’ora in poi non si potrà fare solo a Washington. C’era il superamento della divisione Nord-Sud, sviluppo-sottosviluppo, nella concezione della Wto, e l’esigenza emersa a Doha ne è solo un naturale sviluppo. A uno stadio tale che non è possibile tornare indietro: non hanno senso i discorsi sulla fine della globlizzazione.
L’agricoltura sussidiata è la pietra d’inciampo della globalizzazione. Lo è di qualsiasi politica di libero scambio, che la Wto è chiamata a realizzare. Ma nel quadro attuale, per l’appunto della globalizzazione, con uno speciale rilievo. La Wto è creatura americana. Ne è americana l’idea, e anche la gestione, solo la segreteria può andare a un non americano, e anche a un europeo, Renato Ruggiero prima e ora Pascal Lamy. Ma americani sono anche i sussidi agricoli. Lo sono stati per quasi un secolo, e sembrano ormai l’ennesimo emendamento, come gli altri intoccabile.
L’esito probabile è che gli Usa cercheranno in via diretta con Cina e India un accomodamento. Sia alla riduzione dei sussidi, che l’Asia a Doha avrebbe voluto dell’80 per cento. Sia all’uso controllato della clausola di salvaguardia. È un esito perfino obbligato, visto il peso relativo della globalizzazione in atto, per i manufatti e i servizi, rispetto a quella che si voleva aprire a Doha, dei beni agricoli: il rapporto è di dieci a uno. L’accordo non sarà facile. La liberalizzazione dei prodotti della terra dovrà garantirsi con l’adesione severa di tutti i paesi partecipanti ai criteri fitosanitari e ambientali più avanzati. Ma si farà, ce ne sono già i segni .
La storia si fa nel Pacifico. L'Europa entra in gioco solo nei fori multilòaterali - e questa può essere una delle ragioni per cui senza ragione gli Usa e le potenze asiatiche hanno fatto fallire Doha. L’Ue resterà spettatrice, malgrado la presenza di Lamy al vertice della Wto, e dovrà acconciarsi a una riduzione dei sussidi agricoli. Ma questa potrebbe non essere una catastrofe, e forse è addirittura una liberazione.
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