sabato 26 luglio 2008

La New York italiana è Napoli

Con la solita boria, ma col collaudato mestiere, i giornali inglesi non si sono lasciati sfuggire i napoletani indifferenti in spiaggia di fronte ai cadaveri di due ragazze annegate, che nei giornali italiani erano una fotina con didascalia in pagina interna. Ne sbagliano però la lettura. Anche perché non sanno che Napoli non è l’Italia. Cioè lo è ma nel senso che è l’Italia di domani, più veloce, e insensibile.
Napoli è la prima e ancora l’unica metropoli italiana. Non più prima per numero di abitanti, ma sì per la mancanza di sensibilità, che si accompagna all’atomismo sociale, e si esprime nell’indifferenza, la rapidità, la crudeltà anche. A questo portata forse da una predisposizione in qualche modo “naturale”, per essere etnica, o storica, o proprio tellurica, naturale nel senso proprio della parola. Quando l’Italia dopo la guerra scopriva l’America, scoprì che a New York la gente andava di corsa e magari non si avvedeva che sul marciapiedi c’era un morto. Napoli è la New York italiana. La città, o meglio gli intellettuali di cui la città è vittima, le hanno cucito il mito dell’anema e core, della canzonetta e di Piedigrotta, ma Napoli e i napoletani sono tutt’altro: sono realisti, e di altro non si curano che di sé, tanto sono rapidi, intelligenti, spietati.
Si può dire la loro una frenesia da ex o neo schiavi, bruti liberati, perciò senza tempo, eccitata, vio-lenta. Ma la condizione urbana è questo: sradicamento, ingegno, impegno, sempre soverchiato dai ladri, i corrotti, i furbi. Da qui il ricorso, per proteggersi, a compari, astuzie, aggressività, con l’unico limite della convenienza. È la condizione urbana di sempre e non della modernità, di cui anzi rompe l’equivoco. È la vivacità di chi è sempre stato solo in un agglomerato sociale, la cui storia cioè è impersonale, un evento. Nel traffico, che prima della spazzatura la connotava, Napoli ricostituisce la libertà primordiale d’individuarsi sottraendosi, senza genealogia e senza posterità.
Questo quadro è perfettamente riconoscibile uscendo dalle sabbie mobili dell’antropologia. Napoli, è il maggiore distretto capitalistico in Italia, d’imprenditoria capillare e caparbia, che si nasconde per meglio non pagare tasse né oneri sociali, sforzo sovrumano raddoppiato dalla leadership costantemente rinnovata nel contrabbando e nell’industria dei falsi, dove la concorrenza è aspra. Se la santità c’entra in queste cose, san Gennaro è altrettanto spietato che Calvino e gli altri numi riformati, o san Carlo Borromeo tra i buoni lombardi - quello che è certo del capitalismo è che vuole pelo sullo stomaco. Max Weber, che il capitale lega alla religione, non poteva saperlo, a Napoli ci andava in vacanza, anch’egli reputando i napoletani fannulloni, mentre sono ingegnosi e applicati. E, avendo penetrato la natura della ricchezza, vanitosi e spendaccioni. Napoli è il maggiore distretto industriale e mercantile d’Italia, se non d’Europa, col record mondiale di società di capitali e individuali in rapporto alla popolazione, innovativo, competitivo nei prezzi, preciso nei tempi e negli standard, anche di qualità, seconda area industriale d’Italia, dopo Torino, prima di Milano e Roma, se si conta l’industria della copia e quella al nero.
L’asocialità è perfino esibita nella previdenza. Non si pagano contributi sociali, metà delle automobili non è assicurata, e un’arte si fa del raggiro delle assicurazioni, infinite sono le combinazioni. Non si pagano tanti rimborsi, e altrettanto salati, in altre città anche più grandi. Per la povertà, si dice a titolo di giustificazione, per la disoccupazione, l’ignoranza. No, i napoletani sono tutti avvocati, conoscono i codici. E non è macchiettismo, né arte d’arrangiarsi. I napoletani ne sono le vittime: si può trarre beneficio dalle assicurazioni per un periodo a danno della nazione, ma presto si fa a danno di se stessi. le assicurazioni sono il connotato della società solidale e produttiva, sia le sociali che le private. Ma l’asocialità è più forte anche della convenienza.
E il discorso torna così all’indole, se non alla cultura, se non germina da nuclei infetti. La stessa povertà, l’altro clichè napoletano, è fuori luogo con una natura così fertile e l’immaginazione ferace. La violenza resta filosoficamente ancora da spiegare, è solo saturnina. Ma convive a Napoli con un capitale di urbanità. Il vivere, pensare, parlare accelerato che produce la nobiltà del repartee, anche per il senso filosofico delle cose, accumulato nei secoli, che non va trascurato nel giudizio – se non per l’unica filosofia che l’Italia ha espresso da alcuni secoli, il post-idealismo di Croce, di Gentile.
È antica civiltà urbana d’affari, di microcosmi anarchici. Per questo non è mai stata capitale a nessuno, da Castellammare in giù e al di sopra di Caserta. Era città di corte, la prima città di corte, il modello che Luigi XIV costruirà, piena di cortigiani sradicati. E per questo è festaiola, ma non è allegra. Né ha avuto in realtà una corte, delle classi stratificate, un’etichetta, la regola. Il ruolo e le caratteristiche di metropoli non essendole riconosciute, e anzi negate, Napoli ha per questo latenze cupe. È nevrotica con la faccia della festa. Anche Parigi non è la Francia, non la conosce, non se ne cura. Ma ha fatto la Rivoluzione e ne fa gli ingegneri, i direttori generali, i filosofi. L’Europa è ricca per questo, che ha molti centri, che s’irradiano nella nazione, Napoli s’irradia in se stessa.

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