lunedì 28 luglio 2008

L'equivoco petrolio, risorsa e cappio

Documenta Marco Niada sul “Sole” di ieri come i fondi sovrani gestiscano 3.240 miliardi di dollari. Di cui 2.100 sono gestioni di surplus finanziari petroliferi. Nei passati shock petroliferi, 1973, 1978, si è fatto largo ricorso ai fondamentali del mercato: il petrolio è risorsa deperibile, la crescita degli investimenti per la ricerca di nuovi giacimenti è esponenziale, le riserve sono comunque sempre meno adeguate, il valore aggiunto è maggiore per i consumatori che per i produttori-esportatori. Sui quali è stata costruita una miniera di ricca valuta, già dal primo shock del 1973. Argomenti dimenticati nel 2007-2008, sia da parte dei produttori, che delle compagnie e dell’Agenzia internazionale dell’energia, ammesso che ci sia ancora: nessuno e niente giustifica il prezzo del petrolio, se non la bolla speculativa.
Un bene primario che schizza, in otto giorno lavorativi, da 130 dollari a barile a 160, e poi a 120 è sicuramente oggetto di speculazione. Nessuna configurazione di mercato, neppure l'ipotesi (gonfiata) di guerra all'Iran, dò fondamento a tale volatilità. Ma l'opinione prevalente è attestata sul mercato, e bisogna far finta, ragionare come se. Ma, ragionando come se un mercato ci fosse, le cose non quadrano.
Il petrolio, come si sa, “non ha prezzo”. La formula, letta dallo scià di Persia nel 1973 nel senso che “il petrolio sarà venduto in farmacia”, ha sempre significato che è difficile e anzi è impossibile quantificare il costo di un barile di petrolio. Il costo unitario le compagnie lo hanno sempre “costruito”. Per cui quello saudita era di un dollaro al barile, e quello dell’Alaska dai dieci dollari in su. Ma nulla impedisce che quello dell’Alaska sia di un dollaro, se il giacimento è consistente. I prezzi del petrolio sono valutazioni medie delle compagnie e dei paesi esportatori, su medie regionali o locali. Questo per la parte produzione: ora che i paesi produttori sono padroni del petrolio, la differenza fra costo reale e costo imputato fa già una bella differenza.
Poi c’è il prezzo di mercato. Su cui influiscono la stagionalità e la sostituibilità. La prima è l’andamento giorno per giorno della domanda. Rispetto a un’offerta che per vari motivi è rigida: investimenti, programmazione della produzione, trasporto, raffinazione, distribuzione. Ma la stagionalità è arbitraria, e solo un modo di dire: il freddo puà accrescere il consumo di petrolio, oppure ridurlo, e così il caldo (la stagionalità modula in realtà la domanda fra i diversi prodotti raffinati). A termine più lungo agisce la sostituibilità. In forma di deperibilità dapprima, per un senso di equità: si paga un paese, una nazione, per lo sfruttamento di una risorsa che non potrà sostituire. Poi si paga la sostituibilità vera e propria del petrolio come fonte di energia: quanto costa un litro di benzina di mais, o un chilowattora di fonte nucleare. Questo dice l’economia.
La realtà è tutta diversa, e i fondi sovrani ne sono il monumento. Più che una più equa redistribuzione delle risorse, i prezzi altissimi del petrolio configurano una liquidità eccessiva, che i paesi del petrolio non sanno come maneggiare. Avviato nel 1973, il fenomeno non si è riassorbito col tempo, man mano che i paesi del petrolio si modernizzavano e investivano, ma al contrario è cresciuto. Il premio alla deperibilità e lo schema sviluppo\sottosviluppo non reggono più: le eccedenze finanziare sono state indirizzate in misura irrisoria all’energia. La sostituibilità non è più un argomento, dacché nessuno sviluppo alternativo serio è stato individuato tra le fonti di energia. Sono due crisi completamente diverse, quella degli anni Settanta e la odierna, in due mondi totalmente diversi. Svanito è il rilancio degli investimenti, nello stesso petrolio e in altre fonti di energia, che allora imperava, nel mondo di Reagan e Bush. Non si può più parlare di un’economia dell’energia, se non nel senso che impera chi fa il prezzo, e il mondo si adegua.
I fondamentali odierni del mercato del petrolio - o dell’energia che è la stessa cosa - sono radicalmente diversi rispetto a trent’anni fa, e tutti negativi. Influenzano negativamente forse più della crisi dei mutui in America il moto ondivago della domanda mondiale complessiva, e dell’economia internazionale. Per effetto dell’inflazione e, più, della deflazione. Là dove l’energia costituisce un onere che alcune economie non si possono pagare, quelle dei paesi poveri, e fra i paesi ricchi quelle con più lacci, come l’italiana. Per la promozione di investimenti che mai saranno competitivi, se non a prezzo d’affezione. Come oggi tutte le fonti di energia nuove o alternative, eolica, fotovoltaica, solare, il ciclo dei rifiuti. Per gli sconquassi provocati nei consumi primari, dacché le granaglie, con reazione scomposta come nelle economie di guerra, sono state indirizzate alla produzione di benzina.
Gli effetti sono deleteri sugli stessi paesi produttori di petrolio. Essi pagano molto più caro tutto, e non si rifanno, non possono rifarsi, con i piazzamenti finanziari. I fondi sovrani sono necessari, ma ripagano solo in parte lo sconquasso da cui si alimentano. L’argomento del circolo vizioso, impostato già nella prima crisi, nel 1973, sembrò capzioso. Oggi non più, il problema principale dei fondi sovrani è investire in sicurezza.L’equivoco petrolio, da risorsa a cappio
Documenta Marco Niada sul “Sole” di ieri come i fondi sovrani gestiscano 3.240 miliardi di dollari. Di cui 2.100 sono gestioni di surplus finanziari petroliferi. Nei passati shock petroliferi, 1973, 1978, si è fatto largo ricorso ai fondamentali del mercato: il petrolio è risorsa deperibile, la crescita degli investimenti per la ricerca di nuovi giacimenti è esponenziale, le riserve sono comunque sempre meno adeguate, il valore aggiunto è maggiore per i consumatori che per i produttori-esportatori. Sui quali è stata costruita una miniera di ricca valuta, già dal primo shock del 1973. Argomenti dimenticati nel 2007-2008, sia da parte dei produttori, che delle compagnie e dell’Agenzia internazionale dell’energia, ammesso che ci sia ancora: nessuno e niente giustifica il prezzo del petrolio, se non la bolla speculativa.
Il petrolio, come si sa, “non ha prezzo”. La formula, letta dallo scià di Persia nel 1973 nel senso che “il petrolio sarà venduto in farmacia”, ha sempre significato che è difficile e anzi è impossibile quantificare il costo di un barile di petrolio. Il costo unitario le compagnie lo hanno sempre “costruito”. Per cui quello saudita era di un dollaro al barile, e quello dell’Alaska dai dieci dollari in su. Ma nulla impedisce che quello dell’Alaska sia di un dollaro, se il giacimento è consistente. I prezzi del petrolio sono valutazioni medie delle compagnie e dei paesi esportatori, su medie regionali o locali. Questo per la parte produzione: ora che i paesi produttori sono padroni del petrolio, la differenza fra costo reale e costo imputato fa già una bella differenza.
Poi c’è il prezzo di mercato. Su cui influiscono la stagionalità e la sostituibilità. La prima è l’andamento giorno per giorno della domanda. Rispetto a un’offerta che per vari motivi è rigida: investimenti, programmazione della produzione, trasporto, raffinazione, distribuzione. Ma la stagionalità è arbitraria, e solo un modo di dire: il freddo puà accrescere il consumo di petrolio, oppure ridurlo, e così il caldo (la stagionalità modula in realtà la domanda fra i diversi prodotti raffinati). A termine più lungo agisce la sostituibilità. In forma di deperibilità dapprima, per un senso di equità: si paga un paese, una nazione, per lo sfruttamento di una risorsa che non potrà sostituire. Poi si paga la sostituibilità vera e propria del petrolio come fonte di energia: quanto costa un litro di benzina di mais, o un chilowattora di fonte nucleare. Questo dice l’economia.
La realtà è tutta diversa, e i fondi sovrani ne sono il monumento. Più che una più equa redistribuzione delle risorse, i prezzi altissimi del petrolio configurano una liquidità eccessiva, che i paesi del petrolio non sanno come maneggiare. Avviato nel 1973, il fenomeno non si è riassorbito col tempo, man mano che i paesi del petrolio si modernizzavano e investivano, ma al contrario è cresciuto. Il premio alla deperibilità e lo schema sviluppo\sottosviluppo non reggono più: le eccedenze finanziare sono state indirizzate in misura irrisoria all’energia. La sostituibilità non è più un argomento, dacché nessuno sviluppo alternativo serio è stato individuato tra le fonti di energia. Sono due crisi completamente diverse, quella degli anni Settanta e la odierna, in due mondi totalmente diversi. Svanito è il rilancio degli investimenti, nello stesso petrolio e in altre fonti di energia, che allora imperava, nel mondo di Reagan e Bush. Non si può più parlare di un’economia dell’energia, se non nel senso che impera chi fa il prezzo, e il mondo si adegua.
I fondamentali odierni del mercato del petrolio - o dell’energia che è la stessa cosa - sono radicalmente diversi rispetto a trent’anni fa, e tutti negativi. Influenzano negativamente forse più della crisi dei mutui in America il moto ondivago della domanda mondiale complessiva, e dell’economia internazionale. Per effetto dell’inflazione e, più, della deflazione. Là dove l’energia costituisce un onere che alcune economie non si possono pagare, quelle dei paesi poveri, e fra i paesi ricchi quelle con più lacci, come l’italiana. Per la promozione di investimenti che mai saranno competitivi, se non a prezzo d’affezione. Come oggi tutte le fonti di energia nuove o alternative, eolica, fotovoltaica, solare, il ciclo dei rifiuti. Per gli sconquassi provocati nei consumi primari, dacché le granaglie, con reazione scomposta come nelle economie di guerra, sono state indirizzate alla produzione di benzina.
Gli effetti sono deleteri sugli stessi paesi produttori di petrolio. Essi pagano molto più caro tutto, e non si rifanno, non possono rifarsi, con i piazzamenti finanziari. I fondi sovrani sono necessari, ma ripagano solo in parte lo sconquasso da cui si alimentano. L’argomento del circolo vizioso, impostato già nella prima crisi, nel 1973, sembrò capzioso. Oggi non più, il problema principale dei fondi sovrani è investire in sicurezza.

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