Tre volte i precari messi assieme delle Poste e della Rai. È questa la valanga di possibili stabilizzazioni contro cui la norma senza padri che vaga in Parlamento fa diga. Sono i precari dell’università. Una figura composita di una dozzina di figure contrattuali diverse, ma tutte finte, che un qualsiasi giudice sarebbe costretto a stabilizzare. Un numero che nessuno conosce, ma che è “più di cinquantamila” secondo il ministero, e forse il doppio.
Presentato in un primo momento come un emendamento a protezione dell’industria, il blocca-precari è in realtà inteso a proteggere lo Stato. Sarà ritirato, ma avrà avuto la funzione di segnalare la voragine aperta nella funzione pubblica allargata, se non è stato presentato appunto per questo: le Poste e la Rai sono del Tesoro, e anche l’università, sebbene abbia uno statuto ambiguo, è indubbiamente un’istituzione pubblica e statale, specie per le figure professionali.
Non si tratta di “quattro milioni” di precari, come si sente dire in Parlamento, contro cui la norma farebbe argine. Questo è il parterre dell’occupazione giovanile. Nel quale, da una parte e dall’altra, il precariato ha perduto rapidamente i suoi connotati: non è più maledetto per i giovani lavoratori e non è più apprezzato dai padroni. Il precario è pubblico. Ed è essenzialmente scolastico. Ma, con l'università, è ancora una mina temibile.
Dopo i piani di stabilizzazione per l’insegnamento medio e superiore, quello universitario ne attende uno. L’ambigua autonomia dell’università consente ai governi di fare come se l’università non ci fosse. Ma la cosa evidentemente non sfugge al legislatore, ancorché anonimo.
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