Giedion si perde alla ricerca dell’unità tra architettura, pittura e scultura. E del core (non il cuore?) della città oggi. Come il Campidoglio di Michelangelo fu per Roma (ma non fu sommerso per quattro secoli dalla sporca suburra? Fino ai mattoidi che costruirono il Vittoriano). “Architettura e comunità”, questo il titolo originario del libro, fu pubblicato nel 1956 in Germania da Ernesto Grassi, il filosofo napoletano emigrato, nella collana enciclopedica tascabile dell’editore Rohwolt. Dove aveva una funzione, segnalando un’esigenza. Dopo cinquant’anni è una raccolta di testi d’occasione, un po’ ripetitiva, un po’ giornalismo di seconda mano. Con rare accensioni del Giedion seminale di “Spazio tempo e architettura”: il punto di vista dell’esterno e il punto di vista dell’interno (“aver voluto misurare l’Egitto col metro della Grecia”), il dovere del critico di riconoscere il genio, cioè il proprio tempo, la modernità, la controvertibilità di ogni atto, l’architetto ridotto allo stile in una civiltà senza core.
L’infatuazione ripetitiva per Le Corbusier è tutto dire, per i falansteri di cemento armato in vista, che si frantumano, e le pitture a piani verticali, che si slavano, dopo un anno. Come tutto il razionalismo di quegli anni, entusiasta ma povero. Curiosamente, Giedion denuncia “l’irrimediabile devastazione del paesaggio” che i regolamenti urbani compirebbero impedendo la costruzione senza limiti in altezza. Questi vincoli impongono il logis prolongé, i fascioni ingovernabili che ora tutti vogliono abbattere. Che erano però il sogno di Le Corbusier. E che pensare di un falansterio di cento piani, che proteggerebbe il paesaggio? Che è meglio non si sia fatto. Con un’appendice sull’urbanistica di Walter Hess.
Siegfried Giedion, Breviario di architettura, Bollati Boringhieri, pp.250, € 10
martedì 29 luglio 2008
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