mercoledì 6 agosto 2008

La storia vera dell'Eni, e dell'Italia

Colitti parte ricordando i geloni: i bambini ancora nel dopoguerra d’inverno avevano i geloni. È un avvio che più di qualsiasi storia o sociologia connota la parabola dell’Italia, e con essa dell’Eni. Il suo libro è modesto, quasi una testimonianza personale, e invece è importante. Per alcuni aspetti spiega, per altri lascia capire che, con quella dell’Eni, tutta la storia dell’Italia repubblicana è da rifare, del Sud e del Nord, dei carrozzoni e delle imprese, dell’onestà e della corruzione. Una storia non sempre onorevole, ma da rifare. Superando i pregiudizi che la sommergono, le ideologie, i poteri, dichiarati e occulti, i pettegolezzi, le chiacchiere, le infamie anche, e le frasi fatte che in Italia suppliscono all’opinione pubblica. La storia economica della Repubblica, posto che Ernesto Rossi e Eugenio Scalfari non ci hanno visto bene, o fossero a vario motivo di parte, è ancora tutta da fare: la memorialistica, come questa di Colitti, è necessaria, anche per il necessario confronto, ed è solo la benvenuta.
Colitti rivaluta Giorgio Bo, ministro dell’industria pubblica fino al 1968-69, all’acquisto di Montedison, e Cefis, che è molto migliore di chi l’ha svilito. Il terzomondismo di Mattei Colitti attribuisce a ragion veduta a Bo e Boldrini, il professore che fungeva da presidente dell’Eni. Cefis salvò l’Eni e ne fece il nocciolo di quello attuale. E aveva un progetto anche per Montedison, che non poté attuare perché Cuccia lo strangolò, il cane da guardia della vera razza padrona, le grandi famiglie che mai hanno cacciato un soldo d’investimento. Singolare il rovesciamento del giudizio tra i due: le frontiere della moralità sono mobili per l’imprenditore, il cui compito è assumersi dei rischi, in zone evidentemente non troppo comode, e il giudizio si basa sul coraggio e sui risultati. Notevolissima la chiave d’approccio a Mattei, personaggio che la morte improvvisa nel 1962 ha fissato a monumento di se stesso. Mattei, spiega Colitti, era un insofferente, un ribelle, “come tutti gli emigranti”.
Il racconto di Colitti si fa in larga parte da un posto d’osservazione eminente, a capo delle relazioni pubbliche dell’Ente negli anni Sessanta, erede di Giorgio Fuà e Giorgio Ruffolo. Un servizio che curiosamente ebbe una funzione centrale nell’Eni di Cefis, uomo alieno da qualsiasi politica dell’immagine, fungendo pure da antenna dell’Ente, da ufficio studi politico. Colitti ricorda pertinente il trascurato dossier pluriennale “Stampa e oro nero”, la raccolta imponente dei giornali italiani contro l’Eni (superò i venti volumi) – la teoria che Mattei fu ucciso dai francesi si basa sui virulenti articoli filofrancesi di Montanelli che ne precedettero la morte. Ma le relazioni pubbliche ebbero un ruolo centrale anche nell’orientare l’opinione sull’Eni proprio nei tempi difficili dopo la morte improvvisa di Mattei. Come su varie decisioni strategiche, fortunate e non. Sulla chimica, e quindi sulla Montedson. E nella scelta del gas, prateria aperta, in Russia prima e poi in Algeria, senza trascurare la Libia, l’Olanda e, senza successo, la Norvegia. Inoltre, portarono l’Eni in quegli anni a partner privilegiato dell’Opec nell’area sensibile degli studi e la programmazione - prima che gli Usa lanciassero, nel 1971-72, la campagna per l’aumento incontrollato dei prezzi, che poi avvenne a cavaliere della guerra arabo-israeliana del 1973.
C’è, vissuto e narrato in prima persona, il grande fallimento di Gela. Prefigurazione del fallimento più generale degli investimenti al Sud. E soprattutto di quello che sarebbe diventato quindici anni più tardi l’assetto della politica nazionale. Che nell’impresa pubblica vedrà solo il pubblico e niente dell’impresa. Non è il solo fallimento. C’è anche quello dell’approvvigionamento dell’Europa centrale, Austria, Svizzera e Baviera, cui troppe resistenze furono opposte da invidie nazionali locali. E naturalmente il disastro della chimica. C’è qualche conclusione. “Il capitalismo concorrenziale è un’invenzione degli economisti” – non per altro, è invenzione comoda per la pigrizia. O: “I borghesi non hanno altra fede se non nel danaro”. C’è l’incredibile superficialità di Donat Cattin, il ministro della crisi energetica e del piano nucleare. Fino allo scioglimento in tronco, un lunedì mattina, di tutto il servizio dello stesso Colitti, che in realtà era una direzione e qualcosa di più, centocinquanta funzionari e dirigenti, e altrettanto personale esecutivo. La vita delle aziende è fatta di cambiamenti, e l’Eni, intende dire Colitti, era ai tempi un’azienda, benché pubblica.
La memoria finisce con l’Eni tra i dossier che hanno corroso l’Italia, Ersatz della politica, della politica d’impresa, e della giustizia, dell’onestà, della moralità. Il capolavoro dell’Eni, l’accordo del 1978 con l’Arabia Saudita, a opera di Giorgio Mazzanti, che Colitti non ama, e di Carlo Sarchi, segna l’inizio della fine. L’Arabia Saudita dava il greggio a due dollari di meno del prezzo di mercato del greggio, uno sconto del 10 per cento, e ne assicurava la fornitura in anni di approvvigionamento difficile. In cambio di niente (in realtà di un sostegno diplomatico alla costruzione della moschea a Roma, che poi si fece, e mantiene i sauditi sempre ben disposti verso l’Italia). La lunga agonia durerà vent’anni: l’Eni è ridotto a recipiente per il malaffare politico, i salvataggi, la corruzione negli affari, l’ingestibile Egam, tutto insolvenze e corruzione, che la sinistra buttò sull’Eni, l’ingestibile Montedison. Fino alla resurrezione come star di Borsa, segno che i geni sono rimasti vivi.
Colitti parla di cose viste. Ricorda personaggi di valore che hanno lavorato con lui, Carlo Robustelli e Manlio Magini. Un giovane Enzo Scotti collaboratore di Giulio di Pastore. C’è Moro, ministro degli Esteri, completamente assente alla conferenza per l’energia di Washington del 1974, per la quale tante energie, è proprio il caso di dire, l’Eni aveva profuse. Le cronache delle assemblee Montedison danno una rappresentazione realistica della gaddiana “rendita ambrosiana”. Cuccia è liquidato per “la sua altezzosità e il suo stile mafioso”, e questo è parte del trionfalismo Eni, che resta forte anche nella disgrazia.
Il piglio narrativo è gradevole, e anche veritiero. “Eni” si legge come un giallo, come da copertina, e da insegna dell’Ente. È un viaggio zingaresco attraverso quarant’anni, dello stesso Ente e dell’Italia, con animo sgombro, con risultati incontestabili. È una “storia vera” nel senso di Luciano, dell’aneddoto contestualizzato e significante. In letteratura sarebbe un viaggio picaresco, ma il termine implica una giovane età che per molti non c’è più. O Colitti può sempre dirsi un giovane “settantino”, nella lingua di Camilleri. Di più e più interessante si dovrebbe poter leggere, in riedizione o in un sequel, dei convegni del “Mondo” sull’energia pubblica, e sulla chimica pubblica. Cui forse l’Eni non era estraneo. O sul progetto congiunto col gruppo “l’Espresso” nel 1971 per una catena di giornali locali, che poi sarà Finegil.
Qualche ritratto, qui prevenuto o non documentato, potrebbe aprire nuove vedute. Quello di Cuccia per esempio, che pure ben sapeva chi erano le famiglie che lui proteggeva. Un’altra curiosità è che, mettendo in fila gli scandali di cui l’Eni sarà protagonista, lo Scandalo petroli, l’Eni-Petromin e l’Enimont col “tangentone”, si trova sempre un possibile beneficiario, Andreotti, che finisce invece vendicatore. E comunque uno dei pochi – da Mani Pulite il solo – a uscirne indenne.
Su alcuni grandi temi di cui è stato protagonista Colitti, tutto sommato, trasvola - e già solo questo meriterebbe una continuazione. Uno è proprio la chimica: come e perché l’Italia ne è uscita, pur avendovi l’Eni profuso, attraverso Montedison, una notevole dose di capitale – un calcolo approssimativo dà nei venticinque anni a partire dal 1968 ventimila miliardi, ai valori del 1993, tra acquisti di quote, ricapitalizzazioni, acquisti onerosi di cespiti, fideiussioni e garanzie varie. È un settore di cui Colitti è stato, tra l’altro, protagonista in prima persona, da presidente di Ecofuel e Enichimica, e per gli accordi industriali con i sauditi. L’altra reticenza è sull’ecologia. Sul clamoroso fallimento dell’Eni (il progetto Tecneco), a fronte del partito degli assessori, e del partito degli ingegneri e architetti. Improvvisati cultori della materia, quando l’ambiente divenne la stella del sottogoverno, che sono riusciti a lasciare l’Italia dopo spese da capogiro senza acqua potabile, e con acque sporche ovunque, nei fiumi, nei laghi e nei mari, per non dire dell’aria. Mentre l’Europa, dalla Baviera alla Bretagna, si lustrava tutta, effettivamente “da bere”.
Marcello Colitti, Eni. Cronache dall’interno di un’azienda, Egea, pp. 270, €14

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