Giuseppe Leuzzi
I Gava, padroni di Napoli del dopoguerra, erano veneti.
Anche a Palermo, i padroni sono stati nel secondo Novecento veneti: veneto Cassina, il primo appaltatore, veneto il cardinale Ruffini, veneto il senatore Verzotto.
È veneto, prima che meridionale, l’intreccio di politica e affari. È stato toscano, piemontese, e ora e milanese.
“Sudismi\sadismi” è il discorso sul Sud. Sulla mafia, la corruzione, l’inefficienza. Che è ormai a occhio, non c’è bisogno di bilancia, molto più pesante e oneroso dei fenomeni che denuncia.
A opera più spesso di gente del Sud. È il segno della servitù, avere introiettato il discorso sul Sud. L’unità è stata certamente deteriore in questo senso, sancendo l’inferiorità culturale e morale del Sud. Con che titoli?
Sudismi\sadismi. “Il Quotidiano di Calabria” pubblica sabato le intercettazioni ambientali dei Piromalli vs. Molé nella loro recente faida. Della miseria morale in cui vivono e si confrontano, assassinandosi per le strade, le due famiglie mafiose di Gioia Tauro. Domenica un articolo di Eva Catizone, ex responsabile del Pci-Pds a Cosenza, in cui i Piromalli e i Molè banditi di strada indossano “tailleurs o blazer manageriali, studiano le lingue e leggono i libri”. E dominano il Porto di Gioia Tauro. Che è la maggiore realtà industriale di tutto il Mediterraneo, del Nord e del Sud. Un articolo assurdo, che si vuole ostile ed è un monumento: i mafiosi catizoniani hanno sempre dominato il Porto, anche prima di imparare le lingue, e ora scrivono “una nuova, per certi versi ignota, storia letteraria”.
Tanti Tauri in Calabria, le tombe di Otranto, un’Eraclea Minoa e altre pietre resistenti a Augusta in Sicilia, bisognerà pure fare la storia dei micenei prima della Magna Grecia. A Roca Vecchia sotto il famoso san Foca, il martire giardiniere patrono dei marinai, si vede che i micenei erano in Italia settecento anni prima della prima colonia della storia greca ora in disarmo, avendovi lasciato le loro imitazioni povere delle piramidi. A Otranto, vecchia Idrusa, il signor De Donno ne ha alcune nel suo campo di Torre Pinta, dove fa trattoria.
I micenei, gente che vagava per i mari, al tempo degli egiziani e dei medi persiani. Prima di sprofondare, da Creta e da ogni altra presenza in terraferma, col gigantesco krakatoa che inghiottì Santorini. Presto mitizzati, l’ingegner Dedalo e il figlio Icaro, l’accondiscendente Pasifae moglie del re Minosse, la gentile Arianna, e i tori onnipotenti. Si potrà sempre dire: ecco da dove viene il machismo del Sud.
Si dice Turchia ma di fatto è un mondo greco, bizantino, sottomesso quindici secoli fa da alcune tribù turche del centro Asia. I turchi l’hanno islamizzata, ma la popolazione restò sotto di loro “fissata” al momento della conquista, senza più mescolanza col resto del bacino mediterraneo, nelle forme somatiche e mentali (espressive) del tempo. È così che molte fisionomie e parlate mute, nel Salento, in Calabria e in Sicilia sono inequivocabilmente “turche”.
Il pino calabrese è quello siriano, che si ritrova sulle coste turche.
Il discorso sulla mafia
C’è la mafia, e c’è il discorso sulla mafia. C’è gente che si ammazza e ammazza, e impone servitù e vincoli. E c’è chi questa violenza studia, approfondisce, spiega, facendone ragione di vita. È un impegno nobile, anche quando è un’attività per vivere, a volte perfino lucrosa (le pubblicazioni, i convegni, le commissioni). Ma quando non risolve il problema, quando si perpetua col problema, il discorso sulla mafia, che da alcuni decenni prende l’ottanta per cento del discorso e del Sud, è altrettanto insidioso.
L’antimafia non è mafia naturalmente, ma è come se, anch’essa micidiale. Lo diventa, perpetuandosi, perché il suo discorso trascende, per slittamenti minimi ma significativi, verso l’annichilamento delle società che delle mafie sono le vittime. Attraverso gli stessi studi talvolta, più spesso nell’attività inquirente e normativa, parlamentare, e soprattutto attraverso l’opinione pubblica, i media. I dibattiti, le tavole rotonde, i talk show, specie in tv, hanno un forte potere dissolvente sulle vittime, e finiscono per magnificare l’oggetto della loro critica. Mentre sugli onesti, che pure delle mafie sono le vittime, scende il sospetto (omertà, connivenza, cultura), il pregiudizio giudiziario (e quindi l’ingiustizia), lo scoramento.
Il discorso infinito sulla mafia diventa una camicia di forza e un morbo contagioso, una sorta di epidemia, lenta più spesso che acuta, ma pestifera. Gli effetti depressivi sono visibili nella Pubblica Amministrazione, compresi i giudici e le forze dell’ordine, gli operatori economici, le famiglie, che si parli di formazione, di prospettive, di mera sopravvivenza. Uno che vive al Sud deve sopravvivere alle mafie e, più, al discorso sulla mafia.
Ci sono grandi giornali che hanno giornalisti specializzati unicamente a dire male del Sud.
Provenzano e altri “scrittori” mafiosi tengono in altissima considerazione i mugwump delle televisioni, alla pari dei divi del cinema, di Dante, di Manzoni, di Benedetto Croce, dei grandissimi della storia e della letteratura.
Milano Ortese, “Silenzio a Milano”, 78: “Città industriale e medievale insieme, affarista e ascetica, spregiudicata e prudentissima, che ovunque sospetta un’infrazione alle regole, all’ordine”. Ortese, “Silenzio a Milano”
Tornano d’agosto gli emigranti in Australia o Canada con vestiti sobri, talvolta in autobus, dopo aver fatto il viaggio da Roma in treno, per risparmiare. Tornano invece gli emigranti in Lombardia in fuoristrada o Mercedes Slk. Sono più ricchi? Forse il fuoristrada o la Mercedes sono di seconda mano, anche se bisogna comunque pagarne l’assicurazione e il carburante. Ma non è questo il punto. È che gli emigranti assimilano la cultura del paese che li ospita. Che può essere risparmiosa, e osservante delle leggi, come nei paesi anglosassoni, oppure sbruffona. Si vedono persone in fuoristrada o Slk uscire da tuguri.
Se l’economia nera venisse in chiaro le differenze di reddito di assottiglierebbero. Quelle di cultura, invece, purtroppo no: il Sud è piagnone, anche contro se stesso.
Si parlano tre lingue sotto l’ombrellone accanto, in un angolo dell’infinita spiaggia calabrese. Una accentua la cadenza lombarda, una parla romanesco di borgata, ma con piglio, senza lo strascico, lui il suo dialetto stretto, accentuato, inframmezzato di bestemmie. Perché lui è un uomo. In realtà parlano lo stesso linguaggio, anche se lui sicuramente non lavora e le ragazze sicuramente sì: quello della relativa ricchezza che però non dà sicurezza, non dà carattere. È il destino di tutti, una sorta di emigrazione interiore, quelli che mancano di un punto di riferimento territoriale, una cultura d’origine.
Leonzio Pilato insegna greco a Petrarca e Boccaccio. Nasce a Seminara nel 1316. Affidato all’igumeno Niceforo, ex primate di Bisanzio, incontra nel convento di San Filarete a Seminara Barlaam, un monaco che sarà diplomatico del papa a Bisanzio per la riunificazione delle chiese. Nel 1334 incontra Boccaccio giovane a Napoli. Contattato da Petrarca a Padova il 5 dicembre 1358, ne viene respinto: il poeta non gradisce la traduzione alla lettera, e inoltre è per la supremazia latina. Decide nel 1360 di trasferirisi a Avignone, dal vescovo di Armagh, Richard Fitzralph, che apprezza la cultura greca. Ma viene intercettato a Venezia da Boccaccio e insieme vanno a Firenze.
Leonzio Pilato tradusse Iliade e Odissea a Firenze, a uso di Boccaccio, in meno di un anno, dal greco al latino. Anche se dovette lavorare su un codice in onciale, grafia che gli pose grossi problemi per la traduzione interlineare.
Sicilia, “l’isola del degrado”. Non ci sono che i siciliani per parlare male della Sicilia. Se ci fosse la pena di morte la Sicilia deterrebbe di certo il record mondiale delle esecuzioni. Più della Cina, che pure ha una popolazione duecento volte superiore: i siciliani sono spietati con se stessi. Hanno mai visto la riviera ligure? O l’edilizia in valle d’Aosta?
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