Giuseppe Leuzzi
Il discorso su
In Calabria e Sicilia non piove da quattro mesi, maggio, giugno, luglio e agosto, dopo un inverno asciutto. E manca l’acqua. Ma a Milano non piove e quindi la siccità non c’è. Non per il parlatore incontenibile Loiero né per lo sfingeo Lombardo, i governatori.
Capita di parlare di mafia con mafiosi cogniti: l’analista della megastruttura convenzionata, il commerciante finanziarizzato, il ristoratore da guida, e quelli del lusso, accanto al loro suv o Mercedes da centomila. In italiano, in genere, atteggiato. È estremamente ridicolo. Come una conversazione di routine tra due attori in scena.
La ministra dell’Istruzione Gelmini, nel mentre che dissolve l’università italiana in favore di quella confessionale, dice una cosa giusta: che la scuola al Sud non è formativa. Per questo è sommersa dalle critiche e deve fare marcia indietro. Prepotenza del Sud? Stupidità? È anche un diversivo: la ministra marcia avanti nel suo programma, tanto del Sud a chi gliene frega?
Niente notabilato nei paesi della Montagna. Consigli sì, aiuti, posti sono dovuti, ma senza riconoscenza, né riconoscimento sociale: tutti sono “più” di ogni altro.
Il meridionale non è niente per voler essere tutto – tutti sono politici, artisti, giornalisti, e vittime.
La ricchezza è la legalità. È un concetto semplice: se l’Ente per il turismo dà cinque stelle a un albergo che al più ne può avere tre, o tre a uno che non ha stelle, può anche darsi che questi alberghi affittino qualche camera, ma per una sola volta. Se può definirsi extra-vergine tutto l’olio d’oliva rettificato che si riesce a mettere assieme, lo si potrà vendere, imbottigliato, una sola volta. Mentre se il vino igt è zucchero e alcool, con una goccia di sciroppo, si può anche andare in prigione (in teoria). Si parla di legalità semplice, non di criminalità organizzata, che è complessa ma è anche marginale.
Non abbiamo soprannome. Un altro paio di famiglie in paese non ne ha. Tutti hanno un soprannome. I borghesi non ne hanno, quelli dell’unità d’Italia.
C’è la realtà, e c’è il discorso su questa stessa realtà, che a volte è preminente.
La realtà del Sud, della Calabria, dell’Aspromonte, è esclusivamente il “discorso su”, ed è disperante. Al Sud c’è solo il peggio: la corruzione, la malasanità, la mafia, le raccomandazioni, l’assenteismo. Qualsiasi discorso sul Sud lo vede soggiacere, condannato, deriso, umiliato.
Non se ne può fare un torto a chi lo agita, a ognuno piace sentire cosa gli altri pensano di lui. E finché i fenomeni deleteri persistono. Si muore di malasanità anche a Torino, ma il calabrese giustamente ingigantisce la malasanità a Vibo Valentia.
Il problema sorge quando il discorso viene introiettato e diventa esclusivo. Quando non c’è altro oltre il discorso. “La rima produce il poema”, Jakobson l’ha accertato. O già Platone, secondo il quale se si recita a lungo la parte del malvagio, o del buono, il ruolo finisce per corrompere l’anima.
Se il racconto fa la realtà. I due best-seller nazionali sono l’estate scorsa e questa estate due libri calabresi sulla ‘ndrangheta. “Fratelli di sangue” di Gratteri dà ogni paese della provincia di Reggio dominato dalla mafia, compresi quelli dove la mafia non c’è mai stata. “Anime nere”, di uno scrittore di Africo, scritto peraltro benissimo, magnifica la vita violenta di un mafioso giovanissimo, pluriomicida eccetera, che poi si pente, e fotte la società e lo stato una seconda volta – la cosa non è detta ma è “scritta”.
L’idea d’Italia è radicalmente cambiata. Sotto i termini anodini, scientifici, burocratici, di devoluzione, federalismo, solidarismo e sussidiarietà, nel fisco, la sanità, la pubblica sicurezza, l'informazione e il diritto all'informazione.
In centocinquant’anni ci sono state tre Italie. L’Italia annessionista, che s’è preso il Sud. L’Italia solidale della Repubblica, dello sviluppo del Mezzogiorno - e purtroppo dello "statalismo", della manmissione politica della vita punnlica. E da un quindicennio l’Italia della Lega. O delle autonomie. Un programma rispettabile, e anzi auspicabile. La cultura cattolica è stata fortemente autonomistica per tutta l’esperienza unitaria e fino al partito Popolare. Ma ora è l’Italia di Milano: chi ha più fieno più s’ingrassa.
Pentito a mare
La duna sul mare è stata mantenuta, o creata. Recintata, ma aperta, lo steccato è basso, in legno, è decorativo. È parte di uno stabilimento balneare, con una fila di cabine provvisorie, su piattaforme di legno, e una cabina di legno fresca, che serve da bar. Il nome dello stabimento è simpatico, “Dal naso al cielo”, e il giovane che lo gestisce legge un volume di novelle di Pirandello dallo stesso titolo, o comunque sta sulla sdraio col volume aperto.
È uno stabilimento di Roccella, sullo Ionio, sotto il castello dei vecchi signori Carafa, napoletani che diedero anche qualche papa, tra essi il sapiente e infausto Paolo IV. Un borgo bene amministrato, che rispetta i regolamenti edilizi, dove sulle colonne di granito rosa recuperate al mare e su quelle in cemento della piazzetta davanti alla chiesa le cicogne sembrano interessate a tornare a nidificare, vecchia tappa nei loro spostamenti tra il Nord Europa e l’Africa. È fine agosto, l’aria limpida, non c’è afa, che lungo lo Ionio è temibile, è solo lunedì, ma sembra un’altra epoca rispetto a sabato, l’ultimo giorno prima del controesodo – la stagione qui dura un paio di settimane.
All’ora di pranzo un giovane troneggia sulla duna, a un tavolo che gli fa anche da balcone sulla spiaggia con gli ombrelloni. Un giovane corpulento e già vecchio. Che a tratti gracchia perentorio con voce sgradevole, gutturale, il napolitano verace. A ogni suo urlo, si sommuove un ombrellone sottostante, il solo occupato in tutto il bagno, dove quattro donne stanno sulle sdraio inquiete, quattro signore in età indefinibile, tutte cotte dal sole, che però non sono le sue puttane: prosperose in bikini ma senza appeal, sciatte e curate insieme, tutte con la borsa in spalla che s’indovina pesante da cui non si separano mai. È la loro irrequietezza, spostarsi, sedersi, alzarsi, sparire, ricomparire, sempre con la borsa a tracolla, che attrae l’attenzione e fa passare il momento, del resto non lungo, del pranzo, con insalate pronte. Il tutto con un senso fastidioso però di già visto. Di cose sapute, sentite o viste, che non si riesce a focalizzare.
Questo avveniva nel 1997, o nel 1996. Oggi, nelle foto di un processo, l’omone prende un nome, e più per l’aria sprezzante, più napolitana della lingua, che per la fisionomia. È il famoso Pasquale Galasso, un capo camorrista pentito. Che lo Stato dunque, con quattro poliziotte in bikini, proteggeva in vacanza. Roccella all’epoca era per questo diventata sede di una compagnia, o battaglione, o semplice reparto, di Pubblica sicurezza. Una sorta di casa di vacanza, a turno, per i poliziotti, in qualità di guardie dei pentiti. In precedenza, tutti i politici locali erano stati arrestati o accusati per complicità mafiose, e lo scagionamento si faceva con lentezza e di malavoglia. Retrospettivamente la scena è più sapida: il capo camorrista servito dalle forze dell’ordine, i solerti amministratori in carcere, indebitati con le banche per pagare costose parcelle agli avvocati contro le forze dell’ordine.
Questo Galasso all’epoca aveva quarant’anni. Nato da buona famiglia, un concessionario Fiat, era al secondo anno di medicina quando aveva ucciso due camorristi, che erano venuti a rapirlo, o a rapire il padre. Aveva rubato l’arma a uno dei due e li aveva sparati. Incarcerato a Poggioreale, vi aveva frequentato i migliori camorristi degli anni 1980, da Raffaele Cutolo in giù. Optando infine per i concorrenti di Cutolo, la Nuova Famiglia di Carmine Alfieri, con la quale fu coinvolto nell’assassinio del luogotenente dello stesso Cutolo, Vincenzo Casillo, fatto saltare con una autobomba. Casillo era confidente dei servizi segreti “deviati”. Galasso si pentì, e diventerà l’accusatore della Dc napoletana di Gava, e di tutta la corrente dorotea della Dc, che Gava, allora broker dei governi, rappresentava. Lo stesso Gava che ora è morto, sfinito anche dalla difficoltà di difendersi, seppure con successo.
Dopo Galasso, anche Alfieri si pentì. Nella primavera del 1993, a Bucarest per un’intervista al presidente Ion Iliescu, che intendeva avviare la lunga marcia della Romania verso l’Unione europea, i suoi uomini alludevano sorridendo a un viaggiatore abbonato alla rotta Roma-Bucarest, Carmine Alfieri. Poiché si capiva che i collaboratori erano dei servizi segreti, e che quindi sapessero di Alfieri come i servizi italiani, mi chiedevo perché questo temibile signore non fosse arrestato. Ma era ignoranza - lo specialista di politica estera non si occupa di cronaca nera: Alfieri era stato arrestato l’11 settembre del 1992, e all’epoca dell’intervista probabilmente era già un pentito. I collaboratori di Iliescu insistevano che da tempo Alfieri viaggiava liberamente a Bucarest. Naturalmente potevano barare. Anzi, senz’altro baravano, per loro scopi reconditi. Ma perché inventarsi proprio Alfieri, che ai più, anche non giornalisti di politica estera, era sconosciuto? Volendone fare un romanzo, Galasso e Alfieri sarebbero camorristi infiltrati dei servizi segreti “buoni”.
Venti o ventuno cantieri nel tratto Padula-Lagonegro sulla Salerno-Reggio Calabria nell’estate del 2008, una quarantina di chilometri. Ma ci saranno due-tre operai al lavoro in media in ogni cantiere, e in alcuni non c’è nessuno, una cinquantina di persone in tutto. Molte delle quali si danno l’aria di controllare e non di fare. Sono cantieri per la revisione prezzi?
Lo studio Fillea-Cgil, 2004, sulla Sa-Rc: l’ammodernamento nel 1999 era previsto in cinque anni, per il 2004. Ma al 2004 solo 49 chilometri erano stati ampliati. Per tutto il percorso, quindi, si va al 2015 - se non sarà il 2025: non si vedono aperti, nemmeno segnati in giallo, i cantieri su due tratte molto difficili e costose dell'arteria, da Lagonegro a Castrovillari-Frascineto, e da Cosenza a Falerna, più alcune diecine di chilometri tra Salerno e Sala Consilina, l'estrema provincia campana che, a quel che si vede, sarà a tre corsie... Almeno cento chilometri, e mezze giornate, di percorsi alternativi (intanto i siciliani si sono fatti un traghetto quotidiano da Messina a Salerno e ritorno).
I costi erano raddoppiati, secondo lo studio: dai 3,5 miliardi di euro calcolati nel 1999 a 5,7 miliardi nel 2004. E ciò per singolare - oppure non? – effetto del miglioramento della legge sugli appalti: gli appalti assegnati con la Legge Merloni erano costati 1.184 milioni per 203 chilometri, gli appalti assegnati successivamente col sistema del general contractor sono costati 4.770 milioni, per 204 km. L’Anas ha replicato che l’autostrada sarebbe stata pronta per il 2008. Ma aveva ragione la Fillea-Cgil.
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