Si è ripubblicato dieci anni fa in virtù della recensione che Pasolini ne fece nel 1973, quando il romanzo fu riscoperto da Italo Calvino per la sua collana “Centopagine”. Ma di Pasolini, della sua affascinata e affascinante lettura, che l’edizione di Toni Iermano per Avagliano ripropone (si può rileggere anche in “Descrizioni di descrizioni”), il romanzo si può dire vittima, ridotto a “saggio sceneggiato” contro “la qualità abietta della piccola borghesia italiana”, vista “senza alcun amore”. È il romanzo “del «possesso»”, dice Pasolini. E non “del «possesso» verghiano”, che questo “Ferramonti” peraltro anticipa, “reso epico dal suo fondo popolare e contadino: si tratta di un «possesso» la cui unica epicità consiste nel Male, perseguito senza tentennamenti faustiani”, per l’inconsistenza morale della piccola borghesia. Una lettura monotematica, da realismo socialista, che sarebbe una pietra tombale.
Il tema è in effetti la “roba”. Ma anche il suo contrario: ogni altra aspettativa conculcata dai soldi. “L’eredità Ferramenti” è propriamente il romanzo della vitalità sopraffatta dalla mediocrità, e l’idiozia. E può anche leggersi come una storia d’amore sopraffatto. Dall’adulterio, seppure non consenziente nelle sue pratiche di letto, e quasi dall’incesto. Può essere – è – una “Bovary” antemarcia, anche per la misoginia flaubertiana dell’ignoto Chelli, che è poi misantropia. Di una Emma-Irene con più spessore, riformatrice e non rassegnata, che invece di suicidarsi per i debiti si inventa una seconda o terza vita, su sfondo balzacchiano. I personaggi sono ambigui, compreso lo stesso capofamiglia “borghese” eponimo, che ha porti passioni, meno però l’avidità. È del resto stato ripescato nella collana “Centopagine”, che Pasolini deride nella recensione come “kitsch intelligente” di Fine Secolo, ma che di proposito si fece per “saltare” il realismo socialista, delle storie contadine, di borgata, della Resistenza.
L’equivoco di Pasolini è favorito dall’ambiguità del discorso indiretto, che mentre rappresenta censura. E dalla fobia piccolo borghese che, dopo il Sessantotto e Praga, perseguitava lo stesso recensore. “Questo Chelli” è quindi lui, e non solo perché l’autore è il suo critico. La tarda recensione, a quasi un anno dalla ripubblicazione del “Ferramonti”, acuta, partecipata, si rilegge per molti motivi: il titolo anzitutto, “Dopo Verga e prima di Svevo”, l’analisi del discorso indiretto, la geniale “enfasi sdrucciola propria di quegli anni”, e purtroppo anche dei successivi, di fremiti, palpiti, spasimi, terribili, pallidi, trepidi. Ma, anche in questo, non fa giustizia a Chelli, che invece se ne astiene. Iermano prospetta richiami più appropriati, Moreau, Rops, Fogazzaro.
Resta da dire dell’autore. E della corruzione, che segue l’unità d’Italia. Il filone è consistente dei romanzi della corruzione e della concussione, in Pirandello, Ravetta, De Roberto. Si comincia presto con gli scandali, con la Regìa Tabacchi nel 1869, e anzi con le stesse guerre di indipendenza. Il politico moralista “aveva guadagnato molto danaro” in questo romanzo “colle susssistenze militari, nelle guerre di Lombardia”. L’autore, impiegato a Roma ai tabacchi, era reduce da una piccola attività pubblicistica nella sua città, Massa, di cui aveva pubblicato per un decennio l’avvisatore commerciale, “L’Apuano”. Nel quale pubblicò a puntate due racconti, e l’inizio di un terzo. Che ripubblicati da Paolo Giannotti nel 2003 in Racconti dell’Apuano, Edizioni Publieti, fanno luce sulle fonti. Chelli è stato indirizzato alla riedizione nel 1972 (Calvino, Pasolini) su Verga, quello “francese” di Firenze e quello verista. Giannotti trova invece, col metodo dell’acqua calda o delle date, che entrambi, sia Verga che Chelli, ripetono clichè del tempo. A proposito del Verga fiorentino citando Petronio: le fonti sono, “in Italia, la Percoto, Salvatore Farina, e tanti che noi oggi non leggiamo più”. I temi dei racconti sono quelli della letteratura di Fine Secolo: morire d’amore, o per la cupa avidità, lei muore d’amore per lui, stringere in gita, al mare, alla festa, muti patti e promesse di baci e carezze, colpirsi con un fiore. E allora? Allora, Chelli ne sa fare dei racconti.
Gaetano Carlo Chelli, L’eredita Ferramonti
venerdì 26 settembre 2008
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