Giuseppe Leuzzi
L’europarlamentare Donnici presenta a Strasburgo un’interrogazione contro la giunta Loiero alla Regione Calabria, che spende otto milioni come sponsor delle Nazionali di calcio fino al 2010, e si merita per questo mezza pagina del “Corriere della sera”. L’onorevole cosentino, dell’Italia dei valori, ex della lista Occhetto, ha dei conti da regolare col suo schieramento, quello di Loiero, la sua denuncia della Regione Calabria alla Commissione europea può non stupire. Ma il “Corriere della sera”?
Al Sud non succede niente che non faccia scandalo grave. Anche se il denunciante è l’onorevole Donnici.
È arrivato il generale Mori e il porto di Gioia Tauro diventa covo di delitti. Per un decennio è stato un faro, in posizione leader, per l’economia, il management, l’innovazione, la regolarità del servizio. Ma un generale dei carabinieri sta lì per scovare, snidare, sradicare il crimine. E dunque si comincia. Un container ogni mese o due, su alcuni milioni di container movimentati, giusto per far rientrare anche il porto nell’immaginario italiano su Gioia Tauro, la capitale della mafia. Un container che uno penserebbe pieno di cocaina o eroina, che fa la ricchezza portentosa della mafia calabrese secondo i servizi segreti. Ma no, è un container di vestiti cinesi contraffatti. Importato da altri cinesi. Di vestiti buoni peraltro, meglio tagliati e cuciti di tanti nazionali, e per il prezzo addirittura eccezionali, un affarone, ma che indebitamente portano marchi non di competenza. E dunque la Calabria deve pagare anche per la protezione dei marchi milanesi. Passi. Ma è il crimine creato dai carabinieri, dai Procuratori della Repubblica, dai cronisti giudiziari? Ma allora, eccellenza Mori, memore del prefetto, ci restituisca l’onore: trovi presto qualche container pieno di droga, se non di kalashnikoff - o di carne umana, come li ha trovati il best-seller Mondadori di Saviano.
La liberazione del Sud dev’essere soprattutto da Napoli. E dalla Sicilia.
Del repertorio delle memorie popolari raccolte a Sansepolcro-Anghiari, diari, lettere, novelle, memorie registrate, quelle delle donne in età sanno di saputo, riferite agli anni tra il 1940 e il 1950, nelle zone di montagna dell’Appennino tosco-emiliano.
“Allora per sposarsi usava “scappare”, perché c’era miseria”, trascrivono Angela Maria Fruzzetti e Rossana Lazzini frugando nelle loro conversazioni con le anziani delle Apuane. Il matrimonio si celebrava poi di mattina presto, senza vestito bianco, seguito da un rinfresco per i soli familiari. La “fuitina” più spesso si faceva per non spendere, per abiti, addobbi, ricevimento, non tutti hanno i soldi.
“Quando i due giovani ricevevano il benestare della famiglia, gli era permesso di “fare l’amore” a distanza: lei alla finestra e lui a passeggiare sotto, su e giù nella strada”.
“Quando una ragazza, pur se ignorante o ingenua, restava incinta ed era rifiutata dal suo s seduttore, tutte le colpe si riversavano su di lei. Ma il danno maggiore, all’epoca, ricadeva sulle spalle dei genitori e dell’intera famiglia. Tutta la famiglia era disonorata”.
Si partoriva in casa. Ma qui nulla di male: ora si riusa.
“Sapevamo tutto di tutti, anche di faccende intime. Questo è un aspetto che ancora oggi è rimasto nei paesi di montagna. Però, se c’era da tenere un segreto, le bocche erano veramente cucite. L’omertà era totale, specie con gli «stranieri»”.
Il “Sud” non è insomma speciale, diverso – se è diverso non è per questo. I costumi sociali sono comuni agli stessi ceti, nello stesso territorio di montagna, specie se conformati dal bisogno. L’“invenzione del Sud” è stata per questo aspetto tanto folle quanto perversa. Anche dopo il referendum del 1974 (il divorzio), che fu vinto dalle donne del Sud. Segregare il Sud riversandogli addosso in blocco in massa tutti gli stereotipi non graditi è peraltro operazione sempre fiorente, la malasanità, il pizzo, la diseducazione, la droga, la corruzione, la raccomandazione, il fancazzismo, lo spreco di denaro pubblico. A opera principalmente dei giornali locali, specie in Sicilia e in Calabria.
Si passa con volubilità e vivacità da un argomento all’altro, il vino, l’olio, il petrolio, lo stocco, l’autostrada, la montagna, la politica più utopistica,”frammenti di eventi storici ancora più sbalorditivi, ciarlando senza tregua di questo e di quello con gran buon umore e stupefacente ignoranza dei fatti, con infantile assurdità, la più completa serenità e l’umore più scettico e sagace”. Così i contadini di Vernon Lee alla periferia di Mantova, nel racconto “L’avventura di Winthrop”. Immutabili, e anche divertenti. Se non che la Rai e la Repubblica dei diritti hanno trasformato la provincia in piccola borghesia saccente. Irosa, sprezzante. Per essere pronta a (vittima di?) ogni compromesso: tutto è visto, infatti, esposto, analizzato, discettato, in termini di potere, di affermazione di sé comparativa: “Io ne so più di te, posso più di te, e sono migliore”. La connettività è l’invidia sociale.
Il punto d’insofferenza più acuto tra chi è partito e chi è rimasto è la saccenza. Che si corona sull’ignoranza. Chi è andato via ha dovuto imparare a “sapere”, e odia l’approssimazione. Ma più per la saccenteria, che non è più pettegolezzo e passatempo, è ignoranza.
Lady Ciccone, Madonna Ciccone, “Repubblica” e “Corriere” e “Messaggero” fanno a gara nell’esibire per la star la connotazione diminutiva, di figlia di emigranti, per di più meridionali. Non per la concorrenza, perché tutti i giornali ne magnificano il concerto, danno indicazioni per gli accessi, trovano i biglietti esauriti. Disprezzo della donna? Sì – quanti elogi per Celentano e il modesto “Yuppi Du”, negli stessi giornali negli stessi giorni. Ma a opera di giornaliste femmine. Disprezzo per l’emigrazione pulciosa del Sud. Certo, ma a opera magari di giornalisti meridionali. È la stupidità che regge l’Italia. Non la superficialità: proprio la cattiveria tipica degli straccioni. Che se cerca un primato ce l’ha: è il democraticismo degli stupidi e gli ignoranti, che sempre sono violenti.
Pentimento. Statisticamente, i criminali sentono il bisogno di confessare. A chiunque, pare, qualsiasi cosa. Non di pentirsi, o di punirsi, ma di raccontarla. Farsi in qualche modo protagonisti, sia pure di racconti o romanzi sguaiati.
Il pentimento è narrazione. Come fatto attivo – denunciare, quindi giudicare – è in realtà non pentirsi.
Il vero pentimento sarebbe l’autoannullamento – è la metafora della prigione.
C’è una lingua comune, in Calabria e Sicilia, un dialetto neo-latino compartecipato. La Calabria si è latinizzata via Sicilia, durante l’impero romano e poi coi normanni, ma ci sono diversi linguaggi. Il barbiere chiacchierone di uno dei “Padrini”, dovrebbe essere “Il padrino III”, è di Gioia Tauro e ne ha, nell’originale, la parlata. Mentre De Niro, che fa l’americano di origine palermitana, è taciturno in palermitano.
Ho imparato a conoscere la Calabria da Old Calabria. Da Corrado Alvaro naturalmente, ma quella è la Calabria come appare, senza storia, mutangola, con poco carattere, circoscritta nella rassegnazione, quando non nella bestialità. I suoi linguaggi, e i suoi orizzonti, sono quelli aperti da Old Calabria, a venticinque anni, per un regalo di mia moglie a Londra.
Ci siamo passati la prima volta nel maggio 1968, impolverati nello Spitfire Triumph, tra pietraie e muretti a secco. Poi il calore della pietra del ragusano è stato messo a frutto, e ora è oro verde: il pomodoro di Pachino, il nero d’Avola eccetera. Vi si fa anche turismo, gradevole, di mare, d’arte, di natura,di gelati e perfino di cioccolata.
Si discute di fare meglio l’olio dell’infinito uliveto che da Massarosa va alla Spezia, di individuare e debellare le cause specifiche della “mal’aria” lungo il mare, di migliorare gli accessi e gli sbocchi della tante cave, non solo di marmo, di assestare i terreni in pendio, del miglior uso della manomorta e dei tesori della chiesa. Non senza interesse per il lettore di oggi, anzi con taglio sempre contemporaneo. Effetto forse della letteratura economica, quando si lega alla storia e ai caratteri, della natura e delle popolazioni.Nel 1845, anno della pubblicazione di questa ristampa, “Saggio storico dell’antica e moderna Versilia”, di Ranieri Barbacciani-Fedeli, la Versilia era solo un pontile malfermo per i carichi di marmo. Non c’era l’industria della sabbia, della spiaggia di mare. E il Forte, che ora vende il metro quadrato al prezzo più alto in Italia, era uno dei tanti disseminati dai granduchi lungo la costa. Ma la cura era la stessa. Quella dell’ulivo è perfino commovente, una coltura che tanto è ricca come prodotto quanto è abbandonata in Italia al traffico dei marchi e all’insensata politica agricola europea. Il “tenue lavoro storico-patrio” del Barbacciani-Fedeli, “socio di rispettabili accademie italiane”, documenta un paio di dozzine di tipologie di olivi, quercetano o minutaio, stringaio, grossinaio, moraiolo, frantoiano o morcaio, mortellino o allorino, pallottolaio, cornetto, peppolaio, laurino, colombino o razzarolo, cucco, grendinone, bastardo, selvatico, tiburtino… Ricca è anche la “geoponica olearia”: la luce tra le ceppaie, e tra i grandi e piccoli rami, la potatura dall’alto, eccetera, due terzi di morcaio, il venti per cento di grossinaio e il dieci per cento di minutaio, come prescrive l’uso, oggi si direbbe il disciplinare della coltura dell’olivo nella lucchesia. E la tecnica di lavorazione: lo “spolpa olive” del signor Stancovich, il “torchio oleario domestico portatile” dello stesso, il procedimento Bonard, parroco di Vandarques in Francia, “per ricavare dall’ulive una maggiore quantità di olio… (mediante) una semplicissima aspersione dell’ulive nell’aceto”. Era come avere il mare oggi, l’industria che ha reso superflua la fatica e moltiplica il reddito.
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