È un romanzo liceale, in America rientrerebbe nel genere college. Ci sono i baci rubati, i soprannomi, lo strappo sintattico e verbale, lo psicologismo del tema in classe, il diario. Non felice, però.
Ghiotta resta invece, benché faticosa, l’avvertenza-prefazione di Vittorini alla prima edizione nel 1948 del “romanzo”, scritto “con «non piacere»”, così virgoletta, riprodotta in questo Oscar del 1970. Sul perché si scrive (e si riscrive), e come si legge. Contro, allora, “i conformisti del realismo romanzesco”. Piena di ottime citazioni. “La verità non rischia niente a passare per un periodo di abbiezione”. Il realismo psicologico, “questo era un linguaggio che sembrava obbligatorio imparare per scriver romanzi. Costituiva una tradizione di un secolo” (ma non cita Manzoni, per non dispiacere a Milano?). “Il melodramma ha la possibilità”, Vittorini è infine andato all’opera a venticinque anni, “negata al romanzo, di esprimere nel suo complesso qualche grande sentimento generale”. Oltre che dal conformismo realistico, siamo oberati dal romanzo filosofico o saggistico, “con recensioni di personaggi invece di personaggi, recensioni di sentimenti invece di sentimenti, e recensioni di realtà, recensioni di vita…”. Delizioso il calco d’esordio, inavvertito, di Kierkegaard e la sua teoria delle prefazioni.
Questo è un racconto nel racconto. Vittorini, che non ama le prefazioni, “non ho mai creduto nelle prefazioni, mai, nel tempo delle mie letture, ne ho lette”, ne scrive dunque una. A malincuore, anche perché “un libro vecchio di tredici anni è una «cosa», non più parola”. Ma ne scrive una in XXI paragrafi e una trentina abbondante di pagine. Per scoprire che le prefazioni sono libri: “Quanti libri, del resto, non sono che prefazioni dalla prima parola all’ultima? Quante ne abbiamo pur letto come se fossero opere, e in cui, come se fossero dimore, abbiamo lasciato abitare a lungo la nostra mente, non sono invece altro che una soglia?”.
Vittorini è anche un siciliano onesto. Questo non c’è negli apparati critici che lo concernono, ma è la sua caratteristica. Nell’avvertenza-prefazione al “Garofano” anche più che altrove. Ormai grande editore quando pubblica il “romanzo” nel dopoguerra, dice che avrebbe potuto continuare a pubblicarlo su “Solaria”, la rivista fiorentina, “la dirigevano i miei amici Alberto Carocci e Giansiro Ferrata, e il numero uscito nel febbraio del 1933 portò la prima puntata”. Ma dopo la prima puntata gli capitò di andare a Milano. Una scoperta “straordinaria, dopo cinque o sei anni durante i quali mi pareva di non aver avuto che da bambino rapporti spontanei con le cose materne”, e il “romanzo” fu completato a malincuore, anche per le noie della censura. Afferma che c’è nel libro “un diffuso elemento di impostura” (ma riducendola alla pretesa di aver fatto il liceo, mentre si era solo avvicinato alle scuole tecniche, e a confondersi con la borghesia, lui di famiglia povera di operai, contadini e piccolissimi impiegati…). E vuole riconoscere che il comunismo dei ragazzi fascisti nei primi anni 1930 “ricorreva di continuo nella stampa dei G.U.F. e persino in qualche settimanale di Federazione” - specie lo spartachismo (anche i feroci nazionalisti dei Freikorp tedeschi nei primi anni 1920 ne avevano nostalgia).
Qualcuno nell’apparato critico ha rimproverato a Vittorini la scena con la prostituta Zobeide, e Vittorini concorda: “Il lettore… molto troverà, leggendo, che gli sembrerà falso: ad esempio, i rapporti tra il ragazzo protagonista e la donna di malaffare (ma non esattamente prostituta) della casa di malaffare”. Ma è il solo rapporto vivo del “romanzo” - anche se la “casa di malaffare” è propriamente un bordello, a minutaggio, la “donna di malaffare non esattamente prostituta” una puttana, del giro delle quindicine.
Elio Vittorini, Il garofano rosso
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