Toaff ricorda che nel 1971 alla Bar-Illan, la sua università, “di Shoah si parlava poco”. C’era un insegnamento facoltativo, affidato a un medico scampato al lager, una sorta di testimonianza. Dieci anni dopo se ne fece materia d’insegnamento per la sola facoltà di storia, malgrado forti riserve di molti professori. Vent’anni dopo l’insegnamento era obbligatorio per tutti gli iscritti - si allargava e s’imponeva la “tribunalizzazione della storia”. L’esito è che oggi l’ebraismo è Israele, altrove è folklore. La diaspora si è “inventato un altro ebraismo, con l’aureola della santità incorporata all’origine”. Con i compari dell’anti-antisemitismo: “Un ebraismo senza macchia, ma con molta paura. Anzi, ossessionato dalla paura, e alla continua ricerca di difensori a buon mercato o di apologeti ignoranti”. Solo in Israele la storia dell’ebraismo è libera, è storica.
Questo è vero, l’Olocausto si celebra oggi più che mai. Non dunque per una minaccia al popolo ebraico, ma in difesa di Israele. Si direbbe dunque che l’Olocausto protegge Israele, uno Stato con le sue politiche. Mentre Israele sa guardare oltre – dentro, sotto: è un paese che non ha paura, è libero e non opportunista.
La riduzione della storia ebraica all’antisemitismo e alla Shoah non è in discussione fuori di Israele, se non marginalmente. In Italia, oltre alla traduzione di Finkelstein, "L’industria dell’Olocausto", si ricordano le perplessità di Galli della Loggia, “Se la Shoah oscura l’antifascismo”, e ora le tesi di Marquard e Melloni sulla “tribunalizzazione” della storia, la storia che giudica, la storia che assolve. In Israele invece la politica laica, impersonata ultimamente in Abraham Burg, l’ex presidente della Knesset, figlio del ministro dell’Interno al tempo dell’invasione del Libano, e le università guardano a questa identificazione con aperta insofferenza.
La Shoah entra nel linguaggio comune con la miniserie tv della Nbc nel 1978. Non dunque per una minaccia al popolo ebraico. La tarda reviviscenza si può dire semmai che giochi in difesa di Israele. Che sia intesa a proteggere Israele, uno Stato con le sue politiche. E invece è un fatto della diaspora: dei luoghi dove le comunità ebraiche sono impiantate, in Europa, nel Nord America, della vigilanza in questi paesi contro l’antisemitismo, della storia dell’antisemitismo. Israele sa guardare oltre – dentro, sotto: è un paese che non ha paura, è libero e non opportunista.
Il libello di Toaff è a tratti un’invettiva, col sigillo del sarcasmo, ben livornese – nelle tradizioni della famiglia. E per questo forse rimasto esso stesso virtuale, a due mesi dall’uscita: è un libro di cui non bisogna parlare, se non per censurarlo. La vicenda clamorosa di "Pasque di sangue" ancora sanguina, se si può dire. C’è stata troppa agitazione, è una lite in famiglia. Ma Toaff è uno storico e bisogna occuparsene. È quello che vogliono del resto i suoi critici, che lo rimproverano appunto di aver scritto un libro di storia. E poi, non c’è libro sull’ebraismo incontestato, se non celebrativo o martirologico. Ma la contestazione contro Toaff va oltre, anche nel caso di questo libretto giustificativo. “Orchestrato” lo definisce Moked, il portale dell’ebraismo italiano. Sul “Riformista” Luca Mastrantonio bolla Toaff come “autonegativista”, che non vuole dire nulla, e denuncia “un’industria editoriale dell’antimemoria”. Per una autodifesa? Giulio Busi, che sul “Sole” parte imputando a Toaff il furto del titolo “Ebraismo virtuale” a Ruth Ellen Gruber, conclude: “Bei tempi quelli in cui Toaff scriveva libri importanti sulla storia degli ebrei italiani, e si accontentava di dieci appassionati lettori”. Gli umori insomma sono suscettibili, tra l’autore e i suoi critici. Ma il libro è anche appassionato - è ben vero che Toaff è raro storico ebreo di storia ebraica - contro il vezzo “di fare dell’ebraismo una mitologica selva oscura di fossili o piangenti”. Per liberare la storia ebraica – gli ebrei – dall’ipocrisia (“Renato” era spesso il convertito).
È una riserva di metodologia, necessaria all’autore, per essere stato accusato di errori di metodo, e al lettore nella produzione univoca sulla colpa e l’olocausto. Specie sul significato del pentitismo, sotto costrizione e per un beneficio. Sottile l’applicazione del “paradigma indiziario” di Carlo Ginzburg, il più aspro critico di Toaff, allo stesso “paradigma indiziario”. Quando alcune confessioni, la tortura e le spiate considera buone perché rientrano nel paradigma, e altre cattive solo perché fuori tema - "indizio" che, è bene ricordarlo, Barthes definisce uno dei componenti di ogni storia, lo scarto, nella vecchia "Introduzione all'analisi strutturale dei racconti", del 1966 (tradotta in AA.VV., "L'analisi del racconto", 1969), l'altro essendo la "funzione", o rapporto simpatetico tra i segmenti lineari del racconto.
Toaff pone un problema semplice: se è giusto riscrivere la storia ebraica alla luce dell’Olocausto. Storico non postmoderno, uno che molto caso fa alle fonti, Toaff pensa di no. E non si può dargli torto. Tra i dati di fatto c’è che gli ebrei sono stati nei secoli i nemici dei cristiani – il nemico interno, si direbbe, tanto più indisioso. E di fronte al sospetto e all’odio non si tiravano indietro. Soprattutto era virulento l’odio in ambiente tedesco, e quindi tra gli ebrei ashkenaziti. C’è un effetto di specchio nelle società composite, anche nemiche, gli uni fanno quello che fanno gli altri. L’uso del sangue, a fini farmaceutici e magici, era così comune a cristiani e ebrei, in ambiente germanico, malgrado le interdizioni bibliche. Di questo uso Toaff reitera le prove documentali utilizzate in “Pasque di sangue”, la cui interdizione ha originato questo “Ebraismo virtuale”.
Se la storia ebraica è nell’Olocausto, l’Olocausto non c’è più, anche in questo Toaff ha ragione. “Rifiuto l’idea che tutto, da una vignetta a un saggio, possa tradursi in antisemitismo, si possa trasformare in nuova “Notte dei cristalli”, aveva detto a Titti Marrone sul “Mattino” del 20 maggio, per la riedizione di “Pasque di sangue”. La difesa dall’antisemitismo ha preso il vezzo di rigirare i morti, e buttarli in faccia al mondo. Per la colpa che è di tutti, meno che di noi. La storia ebraica è demandata agli storici dell’antisemitismo, denuncia Toaff, “in genere non ebrei, o ebrei il cui bagaglio culturale è essenzialmente non ebraico”. Anche perché non conoscono l’ebraico, lingua che è oggi marginale ma è quella delle nutritissime fonti. Tra gli storici ebrei la norma è quella del neuropsichiatra-rabbino Gabriel Levi: “Nell’ebreo biblico e postbiblico la storia si chiama generazioni e l’albero genealogico di tutti gli ebrei si declina al futuro”. Commenta Toaff: “Non cercano quindi la storicità del passato, ma la sua eterna immutabile contemporaneità”.
Nella diaspora c’è anche un neo italiano. Tema incidentale della polemica è infatti la riduzione alla Shoah dello stesso multiforme ebraismo italiano. Di quello romano soprattutto. Che fino a ieri si faceva forte della distinta romanità, nell’eloquio, la poesia, la cucina, il culto. Ora questo radicato ebraismo ha rigurgiti d’intolleranza, verso i suoi esponenti forse maggiori: Alessandro Piperno è tollerato, Ariel Toaff interdetto. Mentre vota compatto Alemanno. E dunque? Di nuovo, bisogna aggiungere, c’è pure il patriottismo israeliano. Che non c’era vent’anni fa, anche quindici. Ma insorge giustamente contro kamikaze, hezbollah, qaedisti e Ahmadinejad. Ma Toaff insegna in Israele, dove le ricerche confluite in “Pasque di sangue” sono state oggetto di seminari all’università. È l’immagine di Israele che si riflette nella Shoah, non lo Stato ebraico.
La Colpa nasce dalla non accettazione della storia – nei tedeschi, negli ebrei. È una verità indigeribile, ma non per questo meno vera.
Ariel Toaff, Ebraismo virtuale, Rizzoli, pp.141, € 12
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