L’ambizione è dunque eguagliare “quello”: Berlusconi ha contato che durerà almeno diciannove anni, mentre “quello” arrivò a quasi ventuno. Dovrà quindi rivincere le prossime elezioni. Oppure andare al Quirinale. Mission impossible in entrambi i casi, ardue. Ma Berlusconi un posto ce l’ha già nella storia rispetto a “quello”, come colui che ha cacciato la ricerca scientifica fuori dal paese. “Quello” megalomane voleva fare grande l’Italia, Berlusconi, tutto casa e famiglia, anzi il pater familias buon economo secondo il modello del genovese Leon Battista Alberti, chiude le porte.
D’accordo con le pie Moratti e Gelmini, Berlusconi ha per quasi un decennio messo la ricerca scientifica in ghiacciaia, e ora la sradica. Senza dichiararlo ma con costanza. Senza concorsi e con la drastica riduzione degli accademici a un quinto, entro quattro anni, quanto durerà il governo, l’offensiva sarà conclusa. Sempre meno candidati si presentano al dottorato, e già ci sono buchi, nella ricerca che si riesce a fare con i fondi europei o dei grandi consorzi scientifici: il posto non interessa. Dopo il 2013, anche nell’ipotesi di un cambio di governo, non ci potrà essere un rilancio della ricerca. Gli studiosi non si formano all’impronta, e far ritornare gli emigrati costerà molto caro.
Il taglio di Gelmini alla ricerca non è un problema di cassa. Berlusconi trova ingenti finanziamenti pubblici ogni volta che l’urgenza gli si propone: per gli amici imprenditori, banchieri o industriali, per le guerre, per il ponte sullo Stretto, e naturalmente pe la carta sociale. È un fatto ideologico e di mentalità, il modello ciellino o milanese di ridurre la cosa pubblica all’elemosina: non c’è una volontà generale, ma “ognuno e il suo Dio”, un’accoppiata vincente, più di ogni altra. Un liberismo estremista che ha già provocato mal di pancia non celati nella componente socialista ed ex missina del governo.
“Lui” stesso sa che non dura
Il ricorso è facile alle famose “tre i”, alle quali sarebbe mancata una quarta, l’idiozia. Ma la ricerca scientifica si vuole seria, ripugna allo scarico dell’ironia. E la questione della ricerca è solo apparentemente settoriale. L’Italia ha ancora uno dei più alti numeri di laureati in rapporto alla popolazione, contrariamente a quello che dicono le statistiche internazionali. Ed è opinione condivisa, anche nello schieramento di Berlusconi, che l’Italia regge nella forte concorrenza internazionale grazie alle doti intellettuali. Grazie alla ricerca a monte, all’ingegneria, al fiuto del mercato. Che danno il tono complessivo della società e l’economia. Tutto questo finisce rapidamente con i disegni del governo.
Berlusconi caratteristicamente depreca la depressione che ha colpito l’Italia. La diffidenza, il crollo dei consumi, l’abbandono degli investimenti. Di cui però è la causa, non surrettizia. È la ricerca che guida un paese verso la qualità nella società e nell’economia. Tagliare la ricerca, la grande innovazione di Berlusconi, significa destinare rapidamente il lavoro verso il nulla: attività dequalificate e disimpegnate, senza produttività né altro valore aggiunto, e senza futuro. Cioè destinare l’Italia all’impoverimento.
Il destino dell’Italia, come degli altri paesi europei, in un mondo più giusto, cioè globalizzato, è lo studio, la qualità, la ricerca, insomma guidare la corsa degli altri, essere un gradino più in alto, un passo più avanti. L’Italia di Berlusconi sarà invece un paese di lavoratori a façon, su ordinazione o per conto, finché avrà una abilità manuale superiore a quella dei sarti cinesi e i conciatori marocchini. Non fra molto, fra una generazione o due, diciamo fra vent’anni. Un paese che vedrà ancora più volentieri le sue televisioni, incrementandogli l’inesausto tesoro pubblicitario. Ma lui stesso sa già che non durerà, investe infatti in Spagna e Germania.
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