martedì 21 ottobre 2008

Non c'è guerra giusta contro il terrorismo

L’ex direttrice, fino al 1996, dei servizi segreti inglesi dice “sproporzionata” in una intervista al Guardian il 18 ottobre la risposta americana e occidentale al terrorismo islamico. E afferma che i servizi segreti occidentali erano contrari alla guerra in Iraq e alla reazione seguita agli attentati. Singolare posizione, e anzi sciocca, se non fosse che fa sempre piacere uscire in pensione dall’anonimato, e devi criticare l’America se vuoi uscire sul Guardian – che la pensionata immortala in fotografia come Eva nel paradiso terreste. Ma l’intervista riflette una posizione per l’appunto condivisa, non dal solo Guardian, e una posizione che si vuole di saggezza. Anche se non tiene conto di alcuni assunti ormai scontati per tutti. Inoltre, impegna a definire il terrorismo e, di nuovo, la guerra giusta.
I servizi al governo
In un giornale che non fosse il Guardian e in un paese che non fosse la Gran Bretagna, con un solido impianto democratico, l’impudenza di Stella Rimington sarebbe pure golpista. In una con i servizi russi, che hanno preso stabilmente la guida del paese, e col Mossad, che ora ci prova con la Livni, anche i servizi segreti inglesi cercano di piazzarsi stabilmente sul terreno della politica.
Contro la riservatezza d’obbligo, e invece di cercare informazioni e prevenire il terrorismo, e semmai chiedere scusa e mettersi a tacere, Stella Rimington e la sua successora Eliza Manningham-Buller, che la regina ha nobilitato, in pensione dall’anno scorso, si occupano di criticare il governo. Fustigatrici della “retorica della guerra al terrorismo”. Senza dire come il terrorismo, che loro non hanno combattuto, va fronteggiato.
Il giudizio politico della Rimington è testimoniato d’acchito dalla sua posizione sull’11 settembre: “Un incidente terroristico come un altro”. E il terrorismo a Londra? È stato causato dalla guerra in Iraq: se si guarda “a ciò che gli arrestati o i video dei suicidi dicono sulle loro motivazioni”. Roba da non credere. Ma il fatto è da segnalare perché l’invasione di campo sicuramente farà tendenza.
Il terrorismo
L’evidenza, nel caso del terrorismo islamico, come di quello arabo-palestinese, e di quello brigatista, ha alcuni punti fermi:
1) Il terrorismo è un nemico ninja, sconosciuto e segreto. Fa anzi della segretezza la sua arma principale.
2) Il terrorismo è ultimamente sconosciuto soprattutto ai servizi segreti, di cui pure è l’interfaccia, più che il nemico. A New York, a Londra, a Madrid la colpa delle stragi è dei servizi segreti - in Italia e in Germania invece i servizi (forse) sono stati più attivi o capaci. Si può anche dire – finalmente riconoscere – che i servizi dicono e fanno l’ovvio: quello che l’opinione pubblica dice, la politica diffusa. Esemplare il caso della Cia: aperta e quasi rivoluzionaria alla fondazione, contro il fascismo e il comunismo, poi violentemente di destra, e infine, messa per questo sotto accusa al Congresso, irenica, sempre più “di sinistra”.
3) Il terrorismo islamico opera ovunque, non solo in Europa e negli Usa: Sudan, Kenya, Egitto, perfino la mite Tunisia, l’Arabia Saudita (ma non gli Emirati, che pure non hanno polizia: gli emiri pagano?), il Pakistan, l’Indonesia.
4) Il terrorismo è un nemico interno. Quello islamico lo è anche in Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e Spagna, per le comunità islamiche che vi sono ampie, dai due milioni in su.
5) Il terrorismo è per definizione estremista e impolitico. Non negozia, a nessuna condizione. Fu il caso anche del sequestro di Aldo Moro, la cosiddetta trattativa fu in realtà una non trattativa.
6) Il terrorismo non vuole una cosa, vuol’essere noi. Nella prospettiva rivoluzionaria, di rovesciare un ordinamento o un assetto che ritiene nemico.
7) Il terrorismo a carattere bellico, con capacità di distruzione cioè analogo alla guerra, sia delle persone che delle strutture, e dell’ambiente, ribalta i diritti umani. Si propone esso stesso come strumento dei diritti umani. E non può essere contrastato se non con mezzi limitati, al riparo dei diritti umani.
La guerra giusta
Ma per questo stesso motivo la risposta al terrorismo non può che essere massiccia. Gli Stati non possono combattere il terrorismo con le armi del terrorismo, segretezza e violenza indiscriminata, sarebbe illegale e non è etico. La reazione britannica al terrorismo irlandese – era probabilmente l’epoca di Stella Rimington a capo dell’MI 5 – è stata quasi sempre illegale, anche se nessun tribunale se n’è mai occupato.
La guerra limitata del resto non esiste, commisurata all’effetto che si vuole raggiungere senza le “vittime innocenti” - tutte le vittime di una guerra sono innocenti. La guerra è un’azione cieca, con l’obiettivo di mettere in campo sempre un po’ più di violenza del nemico, e la guerra migliore è quella che mette in campo il potenziale massimo.
Non c’è guerra che non si pretenda giusta. Ma bisogna intendersi sulle cose. Ultimamente la fanno le tribù, in Africa, in Medio Oriente e nei Balcani. E gli Usa nel nome dei diritti umani. La facevano le repubbliche, i principati, gli imperi, le classi sociali, le idee, per un interesse. Carl Schmitt nel “Nomos della terra”, rifacendosi a Erasmo, e ai posteriori Bodin e Alberico Gentile, che a loro volta facevano tesoro delle guerre di religione, la riduce a una sorta di “guerra lecita”. Insomma, regolata dal diritto internazionale, quanto al riconoscimento dei belligeranti, o alla “aequalitas tra justi hostes”. Niente a che vedere con la sistemazione di san Tommaso, della guerra che è giusta quando è sostenuta da un’autorità che è riconosciuta ed è combattuta per una giusta causa e con una giusta intenzione. L’ultima guerra giusta in Europa, prima di quella alla Serbia nel 1998, era stata la Dottrina Breznev.
Bobbio ha avuto problemi, pur difendendo la guerra alla Serbia, a caratterizzare la guerra giusta. I conservatori in Germania, Carl Schmitt, Ernst Jünger, pur bellicisti, escludevano la categoria. La guerra della Società delle Nazioni non è più guerra, c’è un “daltonismo umanitario”, rilevava già nel 1932 Jünger nell’“Arbeiter”. Sotto l’ombrello internazionale è possibile fare guerre giuste, a buon diritto, e derubricarle a penetrazione pacifica, azione di polizia, e ora difesa dei diritti umani. Ma già negli anni Trenta i Diritti Umani campeggiavano nella retorica: i manifesti di Mussolini lo proclamavano Ambasciatore di Pace e Difensore dei Diritti Umani.
In Serbia i bombardamenti hanno ucciso alcune migliaia di civili, per liberare la Serbia dal suo presidente Milosevic, poi dichiarato criminale di guerra, e per liberare i kossovari che non volevano essere liberati (meglio la Serbia che l’Albania), e non l’avevano richiesto, con l’eccezione di un fronte di liberazione creato da un mafioso.
Il diritto di (non) intervento è stato rimodulato nell’“unificazione” del mondo conseguente alla caduta del comunismo, sulla base dei diritti umani, che sono ora il fondamento etico di ogni politica. Il papa Giovanni Paolo II, che ha abbattuto il comunismo, ha teorizzato l’“ingerenza umanitaria” come “diritto d’intervento” ai diplomatici il 16 gennaio 1993. Ma non c’è criterio per far passare i diritti umani come criterio di giustizia. Oggi Roma direbbe che Cartagine è da distruggere perché immola i bambini, e questa sarebbe la sola novità.
I mezzi giusti
Ogni guerra pone, in diritto oltre che di fatto, il problema dei mezzi. L'interesse impone il principio economico, del minimo costo per il massimo effetto. Il diritto pone quello dei “mezzi giusti”, proporzionati cioè allo scontro. È un aspetto del più generale concetto di guerra giusta, che propriamente indaga le cause della guerra, e quindi i fini.
In questi termini, di cause e fini, la guerra giusta – assente dalla guerra dell’Europa e degli Usa alla Serbia nel 1999 – è stata animatamente discussa nel 1990-91, nel conflitto del Golfo. Concetto cristiano e non romano, abbozzato da sant'Agostino e poi approfondito filosoficamente da una lunga tradizione, da San Tommaso a Grozio, a Kant e a Bobbio, è fondamentalmente quella sostenuta per una giusta causa con giusta intenzione. Ma la causa è fortemente variata nei secoli. Fino alle concezioni belliciste del romanticismo, quello tedesco sopratutto: la guerra fatto estetico universale (Novalis), sviluppo morale dell'umanità (Fichte), materializzazione dello Spirito del mondo nei diversi spiriti dei popoli che si avvicendano (Hegel). ricetta per popoli infiacchiti (Nietzsche). Per arrivare alla guerra preventiva per fini umanitari, quali sono quelle degli Stati Uniti e dei “volenterosi” in Irak, e quella della Nato in Afghanistan, per conto dell’Onu. Entrambe azionate dalla lotta al terrorismo che la funzionaria britannica critica.
L’Onu e la Nato proclamano oggi il diritto d'intervento contro quello che era un cardine del diritto, il non intervento negli affari interni di uno Stato. Fra i due ambiti giuridici opposti della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, che protegge gli individui contro gli Stati oppressori, e della Carta dell'Onu che invece previene e proibisce la guerra, comprese evidentemente le guerre preventive - documenti entrambi dello spirito del tempo.
Sull’ammissibilità della guerra umanitaria i pareri sono fortemente divisi. “Gli argomenti addotti per legittimare l’uso umanitario della forza sono poco convincenti e pericolosi”, fu la posizione in America, quando Clinton volle la guerra alla Serbia, di un ex decano di diritto internazionale della Columbia University, Louis Henkin. Mentre Jack Goldsmith, sempre in America, della Chicago Law School, pur concordando che i critici dell'intervento umanitario “dispongono certo di forti argomenti giuridici”, ritenne che “esiste un'eccezione sul piano consuetudinario e pratico”. Certamente nel caso del terrorismo, quando ha santuari degli Stati.
In questa incertezza assume rilievo il tema intermedio dei mezzi, anche per gli effetti devastanti che i nuovi armamenti possono avere. Il tribunale di Norimberga e quello dell'Aja hanno istituzionalizzato il problema dei mezzi. Per adeguati s'intende coerenti e diretti con l’obiettivo della guerra. Chi volesse fare guerra alla Macedonia, per ipotesi, invadendo l'Albania o la Bulgaria, uscirebbe evidentemente dal diritto. Gli Stati Uniti sono stati molto criticati su questo aspetto per aver combattuto il comunismo sovietico intervenendo direttamente in Guatemala, Grenada e Nicaragua, e indirettamente in Brasile e Cile. Il concetto di proporzionato o conguo è più semplice: non si può usare l'atomica per conquistare un fortino abbandonato.
Adeguatezza e congruità dei mezzi rimandano ai fini più che alle cause della guerra - alle intenzioni buone. Fine della guerra è ovviamente la vittoria. Ma sul concetto di vittoria gli Stati Uniti, che a lungo si erano tenuti volutamente fuori degli affari internazionali, in base al precetto di addio di George Washington nel 1796 (“la regola aurea dei nostri rapporti con le nazioni straniere sia di avere con loro i minimi rapporti politici”), hanno introdotto nella storia e nel diritto un concetto nuovo. Fortemente differenziato da quello tradizionale, a cui i governi e l’opinione europea si attengono, che è quello della cancellazione dell'offesa. Gli Stati Uniti hanno introdotto la “resa incondizionata”, o totale.
Fu il presidente Roosevelt a incardinare negli affari internazionali questa categoria. Alla conferenza di Casablanca, nel gennaio 1943, impose la “resa incondizionata” quale unica via d'uscita dalla guerra con la Germania e il Giappone, a un Churchill recalcitrante, per il quale la sconfitta tedesca era nei fatti e la guerra si poteva chiudere più rapidamente con meno danni. Compreso, tra questi, l’arrivo di Stalin a Berlino. L’annuncio di Rooesevelt a Casablanca offrirà materia alla storia revisionista: se non sarebbe stato possibile altrimenti evitare il sacrificio di altri 4-5 milioni di uomini, tra lager e fronte, la distruzione della Germania (con l'arrivo di Stalin a Berlino), i 13 milioni di tedeschi profughi dall'Est, le bombe di Hiroshima e Nagasaki. Ma la vittoria fino all’annientamento dell’avversario è, sotto la leadership americana, principio dominante. Il Nemico è la Forza del male. E ogni discorso sui mezzi adeguati e proporzionati diventa superfluo.
C’è dunque – c’era - fra Europa e Stati Uniti una diversa percezione del diritto. Fraintesa per un difetto di ottica: l'Europa continua a guardare gli Stati Uniti come a una sua proiezione, mentre gli Usa guardano all’Europa come a uno dei quattro o cinque scacchieri mondiali nei quali impegnano la loro leadership, a oriente e a occidente della dorsale americana. Si può anche dire degli Usa quello che Junius (Luigi Einaudi), nel tentativo di spiegarsi “il mistero dell'intervento americano in Europa”, diceva sul “Corriere della sera” della Germania nel 1918: “È una terribile creatrice di guerre, l’idea della libertà illimitata”. Tuttavia, se il discorso delle cause giuste - e dei fini - rimane vago, quello dei mezzi è sostanziale e univoco.
È il caso della guerra al terrorismo, che presenta cause legittime. È guerra di reazione, difensiva. Ma in questo quadro anche preventiva e cieca, essendo il nemico segreto, sfuggente, invisibile – agli stessi servizi segreti. Il problema che si può porre è: sono i bombardamenti espedienti e congrui alla guerra al terrorismo – lo furono nell’ultima guerra dell’Europa in Europa, contro i cittadini di Belgrado per liberarli da Milosevic? Specie quelli americani, che per regolamento, per il principio della minima perdita di mezzi impone di sganciare le bombe da cinquemila metri di altezza. L’aviazione peraltro non ha mai vinto una guerra – può solo prepararla, o completarla con l’annientamento.
La guerra e la pace sono - dovrebbero essere - decisioni diplomatice, prese cioè nella pancia più fredda della pubblica amministrazione, e seguire regole precise, scacchistiche. Solo in queste senso la guerra può essere giusta, se ha uno scopo definito e accettabile, e ad esso indirizza impegni congrui, non necessariamente distruttivi.
I diritti umanitari si vogliono sostituire a quelli naturali. Alla teodicea, si sarebbe detto un tempo, che il terrorismo islamico tenta di restaurare. Il diritto alla liberazione dei popoli come i diritti individuali, all’aborto, l’eutanasia, la procreazione artificiale, la clonazione, l’adozione libera. A quelli naturali mancano le tre virtù virtù teologali: la carità o compassione, la speranza, la fede. La volontà di alleviare le sofferenze di tutti, o di migliorare il mondo. Non si possono opporre ai diritti umanitari, né questi da considerare da meno dei diritti naturali – la medicina c’è anche in natura. È però vero che i diritti umani tendono all’annullamento (suicidio): a infrangere cioè la loro stessa natura vincolistica, di paletti e miglioramenti da introdurre nella natura bruta. Compresa quella che si ammanta di religione.

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