Giuseppe Leuzzi
Tutte parlate del Nord alla radio e nelle televisioni per spiegare il crack. Tutti in qualche modo più o meno artefici del crack stesso, banchieri, assicuratori, accademici consulenti. Che naturalmente censurano con asprezza.
I pentiti sono criminali anche nella confessione. Selettivi, vendicativi. Per tali sono del resto utilizzati dagli inquirenti. Sono cioè criminogeni.
Impersonano a loro modo la legge individuale che il filosofo Simmel pone a fondamento della morale, della vita reale cioè, in contrapposto alla legge ideale di Kant che si contrappone alla vita. A loro modo, cioè al contrario. Il dover essere di Simmel non è un dovere morale, bensì un modo di vita, “in cui possono rientrare i contenuti più diversi: speranze e stimoli, esperienze eudemonistiche ed estetiche, ideali religiosi, capricci, brame immorali”. Ecco come si aprono le voragini.
Si pubblicano in volume, e se ne fa la critica, i pizzini di Provenzano, le “pensate” e gli ordini del capo della mafia siciliana. È una furbata non soltanto editoriale. Si magnifica infatti l’aspetto meno magnificabile della mafia, l’inarticolazione verbale, per analfabetismo o incapacità di argomentare Il mafioso ha un cervello molto semplificato: la rozzezza, di cervello e sentimenti, è il suo tratto distintivo. Ora se ne fa la semiotica, come di linguaggio superiore, e perfino la letteratura.
Alda Merini, “Ipotenusa d’amore”, “Per Giovanni Falcone”
“…la mafia accusa\ i suoi morti.\\ La mafia li commemora\ con ciclopici funerali:\ così è stato per te, Giovanni,\ trasportato a braccia da quelli\ che ti avevano ucciso”.
Dumas spiega nel racconto “Murat” che il suo protagonista viene fatto decapitare da re Ferdinando perché “giustiziato in un posto remoto”: qualsiasi avventuriero avrebbero potuto altrimenti un giorno proclamarsi Murat. Pizzo, Monteleone (Vibo Valentia) e Santa Tropea erano per Napoli fuori dal mondo. Il re Borbone terrà la testa di Murat in un armadio segreto nella sua camera da letto, nella formalina.
I mafiosi non discutono. Con i giudici sì, e con l’avvocato, perché sono tragediatori, con i carabinieri di più, perché li temono, ma non fra di loro. Si fiutano, e si regolano di conseguenza, ma non negoziano. Se non nella letteratura, specie quella siciliana dopo “Il Padrino”.
Per questo le cronache dei vertici, delle conferenze, degli aeropaghi e le cupole, dove si discute e si vota suonano ridicole oltre che stonate.
In America discutono perché il paese è grande, le leggi sono diverse tra gli stati, le mafie sono da sempre di varia nazionalità e numerose nello stesso territorio. Le mafie di New York sono all’estero a Miami, e viceversa.
Moratti è salito per la prima volta sul Duomo di Milano perché ce l’ha portato Zanetti, per la sua festa all’Inter. Altri milanesi famosi non hanno mai visto Brera, o il Cenacolo. Io sul Duomo, a Brera, al Cenacolo ci sono andato a dieci anni, o undici, al primo viaggio estivo con la scuola. Mentre a Reggio, a un’ora di macchina, sono andato per la prima volta a diciott’anni, giusto per la patente. È questa la forza, o la debolezza, del provincialismo, che sappiamo tutto degli altri, quelli importanti, più degli altri, a nessun fine - una vita vicaria, saprofitica.
“Striscia la notizia” , la trasmissione tv più vista, ha due buoni corrispondenti in Puglia, Fabio e Mingo. La Puglia diventa così a sere alterne un concentrato della beceraggine nazionale, frode, speculazione, corruzione, nepotismo, sfruttamento, inefficienza, sporcizia nella tv che ha più otto o dieci milioni di spettatori.
Il provincialismo è l’uso di temi locali in una lingua alta, durevole. O di temi cosmopoliti, di chi ha frequentato il mondo, nella sua grande varietà, in una lingua vernacola? È la grande differenza fra il Nord, Toscana compresa, e il Sud: la durevolezza di Verga, Pirandello, Alvaro, Eduardo, lo stesso Tomasi. Non c’è nulla di più provinciale di Montanelli, anche nel giornalismo in comparazione con le corrispondenze di Alvaro.
Aspromonte
La donna guerriera, dolce e forte, riappare nelle chansons de geste del Sud, specie quelle dell’Aspromonte, nel Quattrocento. All’insegna della religiosità, è vero..
Nella “Canzone d’Aspromonte” del Quattrocento, riedita da Carmelina Sicari, l’eroe locale si confronta con Namo di Baviera, l’uomo della forza e della generosità, il tedesco di Carlo Magno. Nell’Ottocento è subentrato Garibaldi, che non ne ha la statura. Non tutti i percorsi sono prestabiliti, e la geografia è spesso solo un nome.
La realtà è qui sempre immaginata, non soltanto dai calabresi. Narra Antonio Delfino, lo scrittore dell’Aspromonte mancato con rimpianto di molti un mese fa, nell’ormai classico “La nave della ‘ndrangheta”, lo sbarco degli Alleati sul continente europeo il 3 settembre 1943. Lo sbarco si fece tra le fiumare di Gallico e Annunziata, alla periferia di Reggio Calabria: dal ventre di centinaia di mezzi anfibi Ducks la testa di ponte fu stabilita da due divisioni di quella che sarà la famosissima Ottava armata, la prima, di fanti canadesi, per il controllo dell’Aspromonte e della fascia jonica, e la quinta, di fanti britannici, per il controllo della piana di Gioia Tauro: “Un maglio, si disse, per schiacciare una noce: l’Aspromonte fu conquistato al suono delle cornamuse”. Vi si esercitavano a Gambarie i canadesi, “in attesa delle battaglie”, che poi “conquistarono Delianuova, in bicicletta”.
Per la trasformazione dell’onorata società in mafia c’è una data di nascita, narra Delfino, l’agosto 1955. Un tentativo di estorsione da parte di balordi nei presi di Gambarie coinvolse la moglie dell’onorevole Antonio Capua, che si trovava a passare in macchina dal luogo del concordato pagamento. Non ci furono feriti, ma il ministro dell’Interno Ferdinando Tambroni rimosse il prefetto di Reggio e mandò nella città, come questore con pieni poteri civili, Carmelo Marzano. Il superquestore esordì arrestando il capo riconosciuto dell’onorata società, Antonio Macrì, e rispolverando il confino di polizia, vecchia pratica del fascismo per i casi in cui non ci sono elementi per portare un sospettato in tribunale. Arrestò Macrì il 2 settembre, data simbolica, poiché è il giorno della Madonna della Montagna o di Polsi, che l’onorata società vuole sua padrona, e malgrado i buoni uffici del Vaticano lo mandò al confino a Ustica per cinque anni. Il Vaticano se ne interessò perché il Macrì aveva risolto il caso di alcuni preti che, avendo il vescovo di Locri Perantoni scoperto la loro corruzione nella gestione della Pontificia Opera di Assistenza, progettavano di uccidente il vescovo stesso. Soggiornando il Macrì a Ustica già si aprivano le fiumare calabresi allo sbarco delle sigarette di contrabbando, primo passo della ‘ndrangheta imprenditrice al soldo di Cosa Nostra, o mafia.
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