Come sempre ci vuole la Lega per dire l’ovvio – l’ovvio ha fatto la fortuna politica di Bossi. Che i ragazzi figli d’immigrati per integrarsi devono sapere l’italiano. Che quindi faranno meglio con un supplemento speciale d’italiano, scritto e parlato, per un semestre o un anno.
Della Lega bisogna diffidare, poiché l’istinto razzista è sempre forte nei suoi elettori. Ma il buon uso dell’italiano è ciò che gli immigrati più apprezzano per il futuro dei loro figli. Succede infatti ora che i ragazzi fino ai quindici anni vanno comunque avanti a scuola. Ma il figlio degli immigrati raramente è alla pari degli altri. E quando non succede, nella stragrande maggioranza dei casi, matura una condizione e un complesso d’inferiorità che gli precludono le migliori carriere. Il fatto è noto: abbiamo immigrati di terza generazione, ma le posizioni di eccellenza da essi raggiunte sono poche, e solo nella politica.
Il razzismo in Italia c’è. Ma è limitato. A poche persone della Lombardia e del Veneto. E alle anziane benestanti di città. È passivo. I casi di aggressione finora censiti sono di teppismo. E ovunque è un disvalore: vigila la chiesa, vigila lo Stato con leggi dure, vigilano malgrado tutto le forze dell’ordine, e gli stessi razzisti si negano. C’è però distinta, da una ventina d’anni, specie nei media che più si oppongono al razzismo, una voglia di razzismo.
È successo con Azouz, che ci mette tanto di suo. Per la scuola araba di Milano, che invece voleva essere chiusa per potersi rinnovare nelle strutture. Per i rom, con profluvi di dichiarazioni da Bruxelles e fino a Madrid – dove invece gli indesiderabili il governo socialista li espelle senza processo, ogni giorno un aereo pieno. Per il giovane cinese a Roma.
Si enfatizzano le intolleranze, si reagisce in forme spropositate dove un profumo di razzismo c’è, si creano dei casi, si sollecitano e si propagandano condanne all’Italia dalle fonti più disparate. Con lezioni di buona condotta, dai funzionari di Bruxelles al sociologo americano di provincia, e perfino dalla Cina. Senza alcun interesse peraltro, neppure politico o comunque di parte: giusto perché non si concepisce il giornalismo senza scandalo.
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