Che la politica estera, dove si finisce sempre per sbattere nella guerra, debba andare disgiunta dalla politica interna, dagli interessi di questo o quel gruppo, è vecchia saggezza da (vecchia) scuola elementare. Non è dunque da annoverare tra gli exploits del vantone Berlusconi la sua politica estera: tenere ora aperta la questione della Russia, chiudere quella dell’Afghanistan, stabilizzare il credito, come già disimpegnarsi con onore in Irak. D’accordo con Sarkozy, rispetto al quale si assume il ruolo dello smargiasso e anzi del vilain, lasciandogli poi la gloria dello statista assennato, per la grandeur di Le Monde e Libération.
Meglio: non sarebbe da annoverare. Perché Berlusconi su questo campo rischia di conquistarsi i galloni di statista, uno dei tre o quattro statisti italiani da un secolo in qua, dietro De Gasperi e Giolitti. A fronte delle scelte vacuamente belliciste dell’attuale Partito democratico, con la pretesa che siano anzi pacifiste. L’oltranzismo vacuo contro gli oligarchi russi, e ora la guerra per i diritti umani degli afghani, che invece apprezzano di più il papavero - porta più dollari che non tutto l’impegno Nato e Onu congiunto. Per cui non si sa vogliamo liberarci noi, dell’antiamericanismo, oppure liberare gli afghani: le guerre umanitarie sono insidiose.
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