Arbasino vuole continuare a essere il social scientist della cultura, e dell’Italia. Con il consueto insight, teorico e pratico. A p. 13 in tredici righe c’è tutta la letteratura italiana: le ultime parole famose di patrioti sotto i patiboli, le guerre, fatte e non fatte, i piccoli maneggi culturali, gli affetti domestici, con le malattie di mamme e nonni, le vite ermetiche al caffé, il transito dai Littoriali al Soviet tramite la Resistenza, le storie attorno a Mamma Rai. Se non tutta, per tre quarti c’è tutta la narrativa. Con gli elenchi rabelaisiani prediletti. Con l’incredibile, pittorica, memoria. Ma ora con tristezza, camuffata da nostalgia, per l’irrimediabilità – non c’è limite al peggio.
Arbasino, seppure affettato, scrive per il lettore: chi ama leggere, anche meno di un libro al giorno, anche solo una pagina, un capoverso. Brillante, arguto. Specie nella mimesi dei linguaggi correnti, per l’ossessione della non significanza – e allora dove va la società, la politica? È da un trentennio il poeta “civile” della contemporaneità – lo snobismo sarà il migliore punto di osservazione di una decadenza democratica. Seppure misconosciuto, per non essere un compagno di strada, non affidabile, pervicace solitario. Riottoso, benché beneducato. È la sola voce laica in circolazione, e senza ammiccamenti, a differenza dei suoi coetanei, anzi severo, benché scherzoso.
Questo nella prima metà, proseguendo le serie di “Rap!” e l’appassionato “Paesaggio italiano con zombi” di fine millennio. Nella seconda, “Memorial”, Arbasino prosegue implacabile il campionario, avviato su “Repubblica” nel nuovo millennio e proseguito con Gadda (“L’Ingegnere in blu”), degli anni 1950 e 1960. L’ennesima riscrittura, a rate, di “Fratelli d’Italia”. Con una chiave di verità, seppure non voluta: lo fa in polemica col Maggio. Secondo il principio che il Sessantotto no, non si può. Non solo il quarantennale, ma nemmeno l’evento. Mentre il Sessantasette invece… La nostalgia è della cultura come vita dello specialissimo ventennio, suo e dell’Italia. Il genere di giornalismo in auge con la Fallaci, senz’altro preferibile alle paginate da ufficio stampa di questa o quella velina, tutte peraltro integerrime, col loro robusto calciatore. Sempre per la morale: al peggio non c’è limite.
La nostalgia è di “Sessanta posizioni”, i vagabondaggi in Francia, Germania, a San Francisco, che sempre sorprende Arbasino per l’ingegnosità del farsi, e nella London ex swinging, tra i saggi del secolo. Un panorama che, rivisitato oggi, appare deserto. Quello sì kitsch, o cheap, insomma sciocco, tanto è pretenzioso e vacuo. Il problema di Arbasino, dopo i “Rap!” e gli “Zombi”, è che non c’è più niente da irridere. L’Italia è inconsistente. È un corpo morto, seppure imbrillantato. E non nelle “vite basse” ma nelle migliori famiglie, nelle quali l’autore si è costretto. E dunque la satira graffia a vuoto, punge sul grasso, per essere Swift ci vuole una società ben solida da aggredire. Klaus Wagenbach, quivi citato, lamentava a Torino vent’anni dopo, nel 1992, o era il 1994, che “la letteratura è fatta qui dai giornalisti”, qui in Italia, lo lamentava con lo “scrittore giornalista”, uno dei tanti. È tempo più che altro di tebaide.
Le vite basse ci sono sempre state, è la loro natura, il trito della vita, e non urtano nessuno. Sia le “signora mia” e le casalinghe di Voghera, che le loro figlie: sono modeste e non contano. A meno di non farle lievitare, con le cattive amicizie e il democraticismo d’obbligo, a Paese, che per di più si pretende civile. Anche se al loro desco si mangia male, arricciando il naso. Il Sessantotto sarebbe piuttosto Arbasino - lo scrittore è sempre incinto prima del tempo giusto. Meno il birignao, o con un birignao diverso.
Alberto Arbasino, La vita bassa, Adelphi, pp.112, € 5,50
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