Il “calore del sangue” è il sesso, che è nefandezza e morte. Questo romanzo, perduto e ricostruito dopo quasi settant’anni, fa emergere l’orrore del reale fisico che è il filo dell’opera di Irène Némirovsky. Qui alleviato dalla suspense, di storie che contengono (nascondono) altre storie, sempre compreso e perdonato nella curiosa-dolente concezione della vita.
Il romanzo è un “enigme à tiroirs” per i biografi Olivier Philipponnat e Patrick Lienhardt, che lo hanno ricostruito. Questo per la tecnica narrativa. Il sentimento è tragico. “Il più grande servizio che possiamo fare ai nostri figli è di lasciargli ignorare la nostra propria esperienza”, dice la forte-debole protagonista. È l’ingombro personale della scrittrice, l’ingombro della genealogia e della tradizione. Prima della morte a Auschwitz, che niente lasciava presagire.
Irène Némirovsky ha messo a disagio i suoi lettori ebrei, nell’attuale fase di diffidenza che attraversa il mondo ebraico, e ne è rimasta presto vittima. Lasciando diffidenti anche gli estranei alla querelle. Il successo di “Suite francese” si può dire già seppellito con la ripubblicazione di “David Golden”. Strano destino, essere incompresa dopo il lungo oblio, per quello che è stato il suo dramma personale, nella sua intima coerenza. E tuttavia è scrittrice che non si può cancellare.
Némirovsky, Il calore del sangue, Adelphi, pp. 155, €11.
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