Con Obama, e anche prima di lui, è la fine del ciclo del mercato che stiamo vivendo. Il quarto di secolo trascorso da Reagan e la Thatcher, all’insegna del privato è bello. Non c’è altro in agenda per il presidente americano neo eletto che un intervento pubblico per sanare fallimenti e correggere distorsioni. Sui salari, le tasse, l’industria dell’auto, il tessile, l’assistenza medica. Si tratta di ridare compattezza ai ceti medi (allargarli) e ricostituirne il potere d’acquisto. L’effetto deteriore del liberismo è di avere indebolito il corpo della nazione, come si dice in americano. Con l’illusione dei guadagni facili dell’assets inflation da un lato (fino alla quinta o sesta ipoteca sullo stesso immobile), e dell’ideologia individualistica.
Il punto di crisi e di svolta ha peraltro preceduto il voto americano, e anzi l’ha determinato, con i salvataggi delle banche e il pacchetto Paulson, la riserva di 700 miliardi di dollari da iniettare nell’economia Usa, e con i tagli precipitosi dei tassi di sconto. Una seconda crisi in pochi mesi, dopo quella dei mutui immobiliari, che vede ancora i fondi di ricopertura, hedge funds, annaspare ancora nella tempesta che hanno provocato, e il credito interbancario sempre in surplace, e con esso il credito alle imprese: Le banche insomma stanno ancora a guardare, non sapendo se e quanto sono malate.
Non è il disastro ma potrebbe essere, e comunque le regole vanno riadattate. Sui mercati internazionali è a una nuova regolamentazione che l’amministrazione americana è impegnata. Già prima di Obama, e forse malgrado Obama. A opera della Cina, seppure con cautela, e soprattutto dell’Unione Europea.
L’Unione ha chiesto nuove regole, e tiene aperta questa prospettiva contro le reticenze americane. Soprattutto a iniziativa del premier britannico Brown, sul quale l’Italia potrebbe allinearsi, smarcandosi dall’attivismo inconcludente di Sarkozy. L’assenza del governo Merkel dalla scena europea, a partire dal rifiuto del fondo di stabilizzazione comune proposto dall'Italia, riduce il peso contrattuale dell’Ue, ma i fatti ne ripropongono il ruolo.
La globalizzazione finanziaria ha surrogato il potere che il dollaro aveva perduto con l’inconvertibilità, e gli Stati Uniti non intendono naturalmente rinunciare al ruolo guida. La redazione delle nuove regole sarà quindi difficile. Ma non c’è alternativa.
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