Una summa della capacità di Citati di criticare narrando. È un’antologia personale, che parte dalle prime esperienze di critico scrittore. Molto selettiva: severo nelle letture, Citati lo è anche con se stesso, molto ha tralasciato dei suoi scritti in questa raccolta, che dice “mediocri”. La scelta è quanto di più vicino è probabilmente a un’autobiografia - che Citati, biografo sensibile, ci risparmia, l’epoca è allo sbrodolamento, sembrava impossibile dopo le tante zie, ma ora la cifra è il “Grande Fratello”. Ne “Il male assoluto” Citati aveva dato nel 2000 una summa tra le più significative dell’Ottocento. Qui ripercorre il suo Novecento. Partendo da Conrad, come ne “Il male assoluto” da Goethe, i precursori del nuovo secolo. E tutto o quasi tutto si rilegge come nuovo. I tanti ricordi degli amici, Gadda, Fellini, il ritratto di Tomasi di Lampedusa, l’inquietissimo Bertolucci, alla fine padre del proprio figlio, le lettere di Pirandello a Marta Abba. Senza dimenticare Hofmannsthal, per più aspetti il doppio dello stesso autore, Pessoa, il poeta del desassossego, Blixen, Citati è a più di un titolo cittadino europeo.
L’inappartenenza è il filo conduttore della narrativa di Citati, sottile e robusto, l’estraneità. Talvolta insidiosa, traditrice. Perfino Bassani, dice Citati, l’autore più tranquillo e “normale”, viene sommerso dall’inquietudine, scoprendosi quello che non sapeva e non immaginava, “un ebreo, un paria, uno straniero”. Più spesso professata dagli stessi protagonisti e quasi una bandiera. La voglia di essere altrove che viene dalla scoperta dell’imperfezione – la quale, però, fu fatta prima di Gesù Cristo.
Pietro Citati, La malattia dell’infinito. La letteratura del Novecento, Mondadori, pp.560, € 22
domenica 9 novembre 2008
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