venerdì 7 novembre 2008

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (25)

Giuseppe Leuzzi

Il progresso e la cultura sono a Milano a ottobre del 2008 “La vedova allegra” alla Scala, che commuove i migliori critici. Con spolvero di Mitteleuropa. E Beckham al Milan. Che Londra rifiuta: non vi è più buono nemmeno per il gossip. L’Italia sarà pure un outlet, e un emporio di roba usata. Ma sempre Milano ci rivende merce scaduta.

“Panorama” rende pubbliche le magagne dell’università di Siena. Il “Corriere della sera” non è da meno, e rende note quelle già note dell’università di Messina. Siena ha sperperato 250 milioni di euro, a favore di amici, parenti e compagni. Ma Messina fa peggio: vuole spendere 80 mila euro per un quadro sul terremoto del 1908.
I milioni non sono migliaia, ma non fa nulla, il “Corriere” ha la penna brillante di Gian Antonio Stella, che del malaffare al Sud sa tutto, e questo basti. Non c’è solo Siena infatti: il Grande Scrittore Stella trova il modo di citare anche Salerno e Teramo, seppure per spese più veniali, quasi alla nostra portata. Tenendosi, rigoroso, sotto il muro di Ancona - Siena non ci sarà nel gornale, s‘immagina, per essere sopra il muro.
Naturalmente ci sono molti giudici a Messina, Salerno e Teramo, per indagare su questi sprechi di migliaia di euro. E anche questo è un aspetto del fatto. Mentre non ci sono giudici a Siena.

Si uccidono a Napoli per caso bambini e giovani mamme, con la giusta esecrazione del “Mattino”, del sindaco e del prefetto, senza emozione. Si uccidono dei camorristi tra di loro, ed è un gran teatro, di come, dove, ci, comprese le fidanzate, le mamme, le nonne, l’intera Italia si sconvolge, si chiede la pena di morte, il governo manda l’esercito.

Si arrestano i sindaci della Piana di Gioia Tauro. Il presidente della Regione Calabria Loiero non si dice sorpreso al Tg 1, “di fronte alla criminalità più potente del pianeta”. Vero o falso? Falso. Ma Loiero è su piazza da trent’anni.

A Taormina sotto un sole di agosto specialmente caldo, molti uomini si aggiravano in tight, con tubino, uno anche con i chiwawa da grembo in braccio. Sono convitati a un matrimonio che si celebra nella chiesa patronale, per poter fare il ricevimento al San Domenico. Sono di Reggio Calabria.

Discorso sulla mafia
La mafia non diventa ceto dirigente per le sue intrinseche debolezze: è questo il punto di vista più proficuo sulla mafia. La mafia si distingue nella storia del crimine per non aver mai raggiunto la legittimazione sociale e politica. Altre forme di criminalità economica si sono legittimate: dall’usura (le grandi famiglie, italiane, tedesche, fiamminghe di fine Medio Evo) ai condottieri, che erano banditi di strada, ai robber barrons che hanno fatto rande il capitale americane di fine Ottocento, alle guerre di corsa, ai mercanti di schiavi, ai ladri di bestiame. Buona parte delle origini del capitali è di natura delittuosa. Mai però mafiosa.
Non si potrebbe pensare a un’Australia colonizzata dai mafiosi. I Borboni hanno creato Castellace, nell’agro di Oppido Mamertina, trasferendovi dei carcerati, ma la composizione e la natura sociale del borgo non è cambiata nei suoi due secoli, di vendette e latrocini perpetrati talvolta a danno di estranei ma sempre consumati in faide. Dove accidentalmente la mafia ha raggiunto posizioni di potere, in Sicilia più volte, a Brooklin, a Perth in Australia, a Hamilton in Canada, e ora nella provincia di Reggio Calabria, nei circondari di Palmi e di Locri, rapidamente le perde in micidiali guerre intestine.
Il motivo è l’indigenza dei mafiosi, morale prima che economica: bisogna essere stupidi, o abietti, per essere mafiosi. È d’uso celebrare una “vecchia mafia” dotata di virtù. Le riflessioni sulla mafia hanno due vizi. Uno è degli studiosi che finiscono per magnificare, non inevitabilmente, l’oggetto il loro oggetto. Un altro è degli scrittori, fino a Sciascia compreso, vittime della retorica dell’orrore, per cui non si può dire bene della mafia – essa non lo consente – ma si può inventarne un’altra, di anziani saggi che amministravano la giustizia.
Solo sul finire del Novecento e in questo secolo la mafia si è avvicinata a qualcosa che si può definire legittimazione. Attraverso i media e, paradossalmente, l’antimafia, dei giudici e dei politici. L’editoria, il cinema e la stampa hanno costruito attorno ai mafiosi, anche ai più rozzi, epopee e fortune. Da molte stagioni ormai i libri di mafia sono best-seller. Sfruttando l’uso dei pentiti, da parte di procuratori dotati di fantasia, per costruire racconti impensabili (i dessous della storia) più che per testimoniare la (propria) violenza. Mentre la semplice idea di Falcone, di una magistratura inquirente specializzata in questioni di mafia, come c’è quella per il diritto di famiglia, per i minori, per i delitti economici, è tralignata presto in quello che Sciascia aveva preventivato: la lotta alla mafia a uso di carriera, a opera degli inquirenti (giudici, ufficiali, prefetti), dei politici, e dei professionisti dell’antimafia nelle varie associazioni, onlus, fondazioni, tutte in qualche modo pagate dallo stato. È in questo contesto che la mafia diventa per la prima volta soggetto sociale. In Calabria e in Sicilia è anzi in molte scuole primarie un pezzo di storia, l’unica conosciuta dai ragazzi attraverso i libri largamente forniti dallo Stato per senso civico, di Violante, Biagi e altri nobili autori.
La mafia non si acquista un potere, né se lo costruisce. Nelle sue farneticazioni Riina, l’uomo delle innumerevoli stragi terroristiche, di politici, magistrati, prefetti, semplici agenti e perfino di opere d’arte, ha potuto pensare di governare attraverso i comunisti. Ammazzando i giudici a loro invisi. Il mafioso è nei fatti violento, corrotto, traditore, impermeabile a ogni forma di cultura o convivenza. Non ha un progetto, né un ordine da imporre, e finisce sempre in carcere o in una faida.
La mafia ha il potere che le danno gli studiosi e i carabinieri. Nessuna mafia ha mai retto a un’azione di contrasto costante, applicata. Non con i metodi del prefetto Mori, basta un sostituto procuratore che abbia un po’ di sangue nelle vene oltre alle pandette – i mafiosi temono i carabinieri e non i giudici perché quelli sanno di che si parla.

Si contavano mille pentiti di mafia quindici ani fa, quando la protezione venne estesa ai collaboratori di giustizia antimafia, e duemila di camorra. Questo per il senso dell’onore.

Il controllo del territorio è l’arma letale che si attribuisce alla mafia. Abbraccia il familismo, l’omertà e altre sottigliezze sociologiche. E porta al controllo della politica, dell’economia, dei battesimi e delle comunioni. Ma la lotta vera alla mafia sarebbe la cassaforte di ogni politica, plebisciti ne nascerebbero. Della lotta vera alla mafia, cioè dei carabinieri, non dei poeti dell’antimafia, di cui i Comuni e i ministeri comprano ampie tirature.

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