Giuseppe Leuzzi
A Milano “tutti terroni”. Dice bene Sgarbi col suo nuovo libro, Clausura a Milano, sull’amata-odiata “suor Letizia” (Moratti): “È in Sicilia che c’è da sempre la vera civiltà”. Da padano sindaco di Salemi, che ora “è meglio di Milano”. Dopo essere stato deputato della Locride, di cui è vero che ha risanato con pochi gesti molti borghi, Gerace, Ardore, Serra San Bruno.
Come padano è anche orgoglioso di avere coniato per Bossi la Padania. Che però vuole si dica Padanìa, con l’accento sulla i. E questa è terminazione castigliana, dei disprezzati spagnoli del famoso italico romanzo.
Bisogna parlar male di Milano. Ma è Milano che salva Napoli. Il milanese “migliore”, cioè peggiore, Berlusconi. Che, perseguitato da quindici anni nella sua città dai giudici napoletani, tentò nel 1994 di riportarci il Rinascimento col G 8. Poi, appena ne ha avuto l’occasione, l’ha ripulita della mondezza. E ora studia il ri-Rinascimento col museo Archeologico - che davvero è “troppo” (ricco, bello), non solo per Napoli. Da Napoli non ricevendo un grazie, e anzi solo le lacrimevoli intercettazioni con Agostino Saccà. Di cui nulla resta, molti giudici si sono dovuti pronunciare, sebbene a malincuore, per il nulla di fatto.
Nulla, eccetto la rovina di Saccà. Sempre Napoli si è fatta forte di iugulare i calabresi.
A Napoli lo squallore non è la povertà ma la perdita della grazia naturale. Dote visibile nell’arredamento della terra, i richiami di luce, la disposizione degli spazi (palazzi, piazze, strade, giardini), l’apparente naturalezza di ogni manufatto, dal bosco al fiore, dalla piazza al basso. Nella città, sul Vesuvio, nei Campi Flegrei, nella costiera, nelle isole – fin dove Napoli arrivava.
È una perdita del dopoguerra? Di ottant’anni fa? Di cent’anni fa? Per quale invasione? O mutazione genetica? A Napoli è arrivata l’Italia.
Per Mario Soldati, Fuga in Italia, “questi uomini”, gli italiani del Sud, “non sono ancora cristiani”. Cristiano è chi ha imparato “a distinguere tra il bene e il male: e a porre, in questa distinzione, la propria dignità”. Al Sud “manca proprio questa educazione e questa dignità”. Gli uomini del Sud “adorano l’astuzia, e il peggior giudizio che diano di un loro simile non è già quello di malvagio, bensì quello di «fesso»”. Al Nord, com’è noto, invece no.
Così nasce l’antropologia.
Soldati, in questo nuovo millennio, lo pubblica un’editrice del Sud, Sellerio. Si dev’essere cristianizzata.
O forse con “questi uomini” del Sud Soldati intendeva proprio i maschi, escludendo le donne.
Di tutti i compagni alle elementari, una trentina, solo cinque sono rimasti in paese, e due delle quattro ragazze. La classe è il 1941, rimpolpata di qualche ripetente o ritardatario. Della famiglia, i figli sono stati da quarant’anni a Roma, due per lavoro, una per matrimonio. Dei nutriti collaterali per parte paterna – quarantuno primi cugini - tre famiglie, genitori e figli, si sono trasferite a Roma, per studio e per lavoro, una al Nord, e una sola è rimasta in paese.
“Così e non peggio”, era un modo di dire in Calabria. Di rassegnazione o di saggezza?
La Sicilia è vittima – costante, senza eccezioni, anche nei siciliani intelligenti – del suo spirito “tragediatore”: da Lampedusa allo stesso Sciascia, e a Riina naturalmente, Badalamenti, Inzerillo e altri balordi. Si può essere certi che tutti i siciliani ci cascano, anche quelli di maggior fortuna all’estero, come Sindona e Dell’Utri – solo Cuccia vi si sottrasse, dicendosi siciliano ma tenendosi a distanza. La sindrome del potere che la mafia rappresenta come opera dei pupi. Quel delirio innecessario e inutile di onnipotenza, tanto più in una terra cui la natura vuole bene. Perfino i terremoti, che hanno preservato le antichità.
La Sicilia non è irrilevante, malgrado la retorica.
È porta del mito, che per i siciliani è realtà: l’eccesso. Ed è mentale, malgrado i turgori e la natura amica. Malgrado vini, i dolci, i mari.
Le isole hanno buona memoria, si conservano bene.
Discorso sulla mafia
Il modello metropolitano (Arlacchi, Saviano) meglio si attaglia alla criminalità organizzata che quello arcaico. La stessa faida è quasi sempre una violenza avida, o disperata.
Riletto dopo quindici anni, Giorgio Galli, La regia occulta, è la demenza “perfetta”. O perfetta sindrome del complotto: la storia della Repubblica fatta dalla mafia. La mafia (Gioia, Lima, forse Gullotti) vota Fanfani al congresso Dc di Firenze, ottobre 1959, quindi vota il centro-sinistra. Centocinquanta pagine. Sulla fonte di un articolo, per un settimanale illustrato, di Pietro Zullino. Il quale però si chiama fuori. Un articolo vecchio di venti e passa anni.
Per quanto, lo storico è probabilmente sopravvalutato. Ha scritto una biografia di Fanfani, per Feltrinelli, senza mai incontrarlo. Era lo storico che doveva provare la mafiosità di Andreotti al processo di Palermo, e lo ha fatto assolvere, e ora Andreotti non è più il capo di Lima. La miseria del Sud è anche nei suoi interpreti, senza colpa.
Si può dire la mafia l’opera dei pupi della malvivenza. Senza serietà. I Riina e i John Gotti sono terribili, truculenti, smisurati, e purtroppo reali, i loro morti squartati, mutilati, dilaniati, sono veri. Ma non hanno altro spessore che quello di un cattivo teatro. Non hanno effetti, non lasciano traccia, protagonisti da trovarobato dela cronaca indigente.
La mafia è in questo la Sicilia: un linguaggio scomposto, di marionette sfuggite al teatrino.
È la minaccia quotidiana – la barbarie. Delitti avvengono ovunque, e sono più numerosi e spesso più efferati altrove che nelle aree mafiose. Ma in queste aree sono una rete, minacciosa anche quando non si attua. Che condiziona il modo di essere prima che gli eventi.
L’antimafia al contrario può solo essere sugli eventi. Ma non è per questo debole o indifesa. E anzi potrebbe salvarci: la mafia si distrugge colpendo – impedendo, prevenendo, condannando – il reato. Ma si atteggia anch’essa a rete, a specchio della mafia, ed è così improduttiva e anzi glorificatoria. Aggiunge condizionamento a condizionamento. Tipica la condanna di chi paga il pizzo piuttosto che del mafioso che lo impone: si toglie il respiro alla libertà, riducendola al compimento di un obbligo procedurale.
È la democrazia andata a male. Una democrazia radicale, senza regole.
È eversiva come la democrazia non regolata. È il lato debole della democrazia, in cui inevitabilmente vince il peggiore, anche soccombendo. Ance soccombendo, monopolizza e svilisce le forze migliori, sempre tiene in scacco le forze costruttive.
Uccidere e farsi uccidere è il proprio del mafioso. Non per arricchimento, se non come mascheratura di questa forma di annientamento: nove mafiosi su dieci muoiono poveri, sporchi, selvaggi. L’annientamento è sfrontato come manifestazione di potere, e in effetti lo è: è il terrore, destino eccezionale, infliggere paura, subirla. È l’equivalente del rivoluzionarismo latinoamericano (messicano, colombiano, peruviano): non un disegno politico o un progetto, ma il potere che dà l’annientamento.
Il controrerrore è l’antimafia vincente, come lo è stato contro il terrorismo, con le stesse controindicazioni. Uno sfogo alternativo a questa energia di annientamento non è agevole. Facendoli sbirri, come si è visto, sotto forma di pentiti, non muta il gene del vizio. L’istruzione e l’arricchimento non hanno mai funzionato.
Teoricamente, in alternativa all’annientamento c’è la presa del potere: la mafia si sconfigge facendola classe dirigente. Alla sommatoria finale si perderebbero meno vite, tempo e risorse che nella normale, repressiva, azione di contrasto. Il potere di nuocere è infinito e mette in scacco, bruciandole, seccandole, le risorse migliori.
Con la mafia non si tratta anche perché è anarchica. Per questo è sbagliata la politica degli informatori in cambio di soldi o favori, qual è la prassi nelle aree mafiose, dove tutti si denunciano: c’è sempre un altro mafioso nuovo e incontrollato. Qualcuno, è vero, è anche incontrollabile.
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